29 A 12. PLAT. Parm. 128 B. - Sì, o Socrate - disse Zenone. Ma tu allora non hai colto affatto la vera intenzione dell'opera, sebbene, come fanno i cani di Laconia, tu bene persegui e rintracci ciò che vien detto. Prima di tutto ti sfugge questo, che la mia opera per nulla affatto si dà tante arie da essere scritta con l'intenzione che tu dici ma dissimulandola alla gente per sembrare di fare qualcosa di grande. Quel che tu dici qualche volta capita, ma in realtà questo scritto è una difesa del ragionamento di Parmenide contro coloro che impresero a metterlo in ridicolo, dicendo che se l'essere è uno, le conseguenze a cui il ragionamento è costretto sono molte e ridicole e contrarie al ragionamento stesso. Dunque questo scritto si contrappone a coloro che affermano la molteplicità e rende loro la pariglia e ancor più, volendo mostrar questo, che l'ipotesi della molteplicità sbocca a conseguenze più ridicole che l'ipotesi dell'unità, quando le conseguenze siano tratte opportunamente. È per tal umor battagliero che io, che ero giovane, scrissi quest'opera, e qualcuno mi derubò il manoscritto, di modo che non ci fu più luogo a deliberazione se fosse il caso di darla in luce o no. In questo, o Socrate, consiste il tuo errore, nel credere che sia stata scritta non dall'umor battagliero di un giovane, ma dal desiderio di gloria di un uomo non più giovane. Ragione per cui, come ho detto, ne hai colto male il carattere. 29 A 12. PLAT. Parm. 128 B Ναί, φάναι τὸν Ζήνωνα, ὦ Σώκρατες. σὺ δ' οὖν τὴν ἀλήθειαν τοῦ γράμματος οὐ πανταχοῦ ἤισθησαι. καίτοι ὥσπερ γε αἱ Λάκαιναι σκύλακες εὖ μεταθεῖς τε καὶ ἰχνεύεις τὰ λεχθέντα˙ ἀλλὰ πρῶτον μέν σε τοῦτο [I 250. 25 App.] λανθάνει, ὅτι οὐ παντάπασιν οὕτω σεμνύνεται τὸ γράμμα, ὥστε ἅπερ σὺ λέγεις διανοηθὲν γραφῆναι, τοὺς ἀνθρώπους δὲ ἐπικρυπτόμενον ὥς τι μέγα διαπραττόμενον˙ ἀλλὰ σὺ μὲν εἶπες τῶν συμβεβηκότων τι, ἔστι δὲ τό γε ἀληθὲς βοήθειά τις ταῦτα [τὰ γράμματα] τῶι Παρμενίδου λόγωι πρὸς τοὺς ἐπιχειροῦντας αὐτὸν κωμωιδεῖν ὡς, εἰ ἕν ἐστι, πολλὰ καὶ γελοῖα συμβαίνει πάσχειν τῶι λόγωι καὶ ἐναντία [I 250. 30] αὑτῶι. ἀντιλέγει δὴ οὖν τοῦτο τὸ γράμμα πρὸς τοὺς τὰ πολλὰ λέγοντας, καὶ ἀνταποδίδωσι ταὐτὰ καὶ πλείω, τοῦτο βουλόμενον δηλοῦν, ὡς ἔτι γελοιότερα πάσχοι ἂν αὐτῶν ἡ ὑπόθεσις, εἰ πολλά ἐστιν, ἢ ἡ τοῦ ἓν εἶναι, εἴ τις ἱκανῶς ἐπεξίοι. διὰ τοιαύτην δὴ φιλονικίαν ὑπὸ νέου ὄντος ἐμοῦ ἐγράφη, καί τις αὐτὸ ἔκλεψε γραφέν, ὥστε οὐδὲ βουλεύσασθαι ἐξεγένετο εἴτ' ἐξοιστέον αὐτὸ εἰς τὸ φῶς εἴτε μή. ταύτηι [I 250. 35] οὖν σε λανθάνει, ὦ Σώκρατες, ὅτι οὐχ ὑπὸ νέου φιλονικίας οἴει αὐτὸ γεγράφθαι, ἀλλ' ὑπὸ πρεσβυτέρου φιλοτιμίας˙ ἐπεί, ὅπερ γ' εἶπον, οὐ κακῶς ἀπήικασας.