DIFESA DI PALAMEDE 71*

82 B 11 a. (1) Tanto l'accusa quanto la difesa non fan questione di vita o di morte; poiché la morte, già la natura l'ha votata, con un voto manifesto per tutti i mortali, il giorno in cui nacquero; qui invece è in gioco il disonore e l'onore: se io debba secondo la legge comune morire72* ovvero col più grande oltraggio e sotto l'accusa più infamante, di morte violenta perire. (2) Essendo due questi casi, l'uno l'avete in pieno potere voi, l'altro io; e cioè, la giustizia, io; la violenza, voi. Uccidermi infatti potrete, volendolo, facilmente; poiché disponete di quei mezzi dei quali per nulla io dispongo. (3) Or dunque, se l'accusatore Ulisse - o che sapesse con certezza aver io tradito la Grecia ai barbari, o che ritenesse73* che le cose stessero così - avesse mosso l'accusa per amor della Grecia, sarebbe un uomo perfetto; e come , dato che salva e la patria, e i genitori, e tutta la Grecia, e per di più punisce il colpevole? Ma se per invidia o per frode o per furfanteria egli avesse inventato una simile accusa, come per i motivi anzidetti sarebbe un uomo ottimo, così per questi sarebbe pessimo.(4) Ma donde rifarsi per entrare in tale argomento? che dire per primo? a qual punto della difesa rivolgermi? Poiché un'accusa non dimostrata ispira uno spavento manifesto; e a causa dello spavento, vengono per forza a mancar le parole; a meno che non mi suggeriscan qualcosa la verità stessa e la presente necessità, maestre ricche più di pericoli che di espedienti. (5) Pure, che l'accusatore mi accusi 〈senza saper〉 nulla di certo, io di certo lo so; poiché ho coscienza ben certa di non aver fatto nulla di simile; né so come qualcuno potrebbe sapere una cosa non avvenuta. Se poi egli mosse l'accusa fondandosi sopra una supposizione, io vi dimostrerò che non dice il vero con un duplice ordine di prove: cioè che né, volendo, avrei potuto, né, potendo, avrei voluto mettermi in un'impresa di tal genere. (6) Comincio dal primo argomento, come cioè non avrei potuto far quest'azione. Bisognava infatti che del tradimento ci fosse qualche precedente; e il precedente, sarebbe stato un colloquio; poiché ai fatti devono per forza precedere le parole. Ma come ci sarebbero stati colloqui, se non c'è stato alcun incontro? E come ci sarebbe stato incontro, se né lui mandò qualcuno da me, né alcuno andò da parte mia presso di lui? Perché neppure un avviso scritto può arrivare senza qualcuno che lo porti. (7) Ma ammettiamo che la cosa sia avvenuta mediante un colloquio: io m'intendo con lui e lui con me, in qualche modo.74* Ma chi, con chi? Io, greco, con lui barbaro. E in che modo ascolto e parlo? forse da solo a solo? ma non ci comprenderemo a vicenda. O forse con un interprete? ma allora egli divien terzo testimone di cose che van tenute nascoste. (8) Pure, ammettiamo anche questo, sebbene non sia stato. In seguito a tali colloqui bisognava dare e ricevere un pegno. Qual pegno poteva essere? forse un giuramento? e chi avrebbe creduto a me, al traditore? allora ostaggi? quali? per esempio, io avrei potuto dar mio fratello (ché non avevo altri) e il barbaro uno dei figli; e questo sarebbe stato il massimo pegno di lui verso me, e di me verso lui. Ma questo fatto sarebbe venuto a conoscenza di voi tutti. (9) Ma si potrà dire che noi ci siamo impegnati con denaro; lui col darlo, io col riceverlo. Forse per poco? ma non sarebbe ragionevole, in cambio di grandi servigi, ricever poco danaro. Allora per molto? e in che modo fu portato? e come poteva portarlo? o furono in molti? Ma se furono molti a portarlo, molti furono testimoni della congiura; se fu uno solo, il denaro portato non poteva esser molto. (10) E lo portaron di giorno o di notte? Ma numerosi e frequenti sono i posti di guardia notturni, alla cui sorveglianza è impossibile sfuggire. Allora di giorno? Ma la luce è nemica a tali imprese. Pure, ammettiamolo. Fui io ad uscire per ricevere il denaro, oppure chi lo portava riuscì a penetrare? Ambedue i casi sono assurdi. Pure, una volta preso, come l'avrei celato ai miei di casa e agli altri? dove l'avrei deposto? come l'avrei custodito? ché, adoprandolo, mi sarei scoperto; e non adoprandolo, che vantaggio ne avrei avuto? (11) Ma ammettiamo pure come avvenuto ciò che non è avvenuto. Fummo a convegno, parlammo, udimmo, io presi denaro da loro, lo presi di nascosto, lo nascosi. Doveva finalmente compiersi quello per cui tutto ciò era stato fatto. Or questo appunto è ancor più inesplicabile delle cose anzidette. Perché, agendo, o agivo da solo, o con altri. Ma non era impresa d'un solo. Allora con altri? ma chi? Con i congiurati, è evidente. Liberi, o schiavi? Voi, tra cui mi trovo, siete uomini liberi: parli, chi di voi sa qualcosa. Quanto ai servi, come non diffidare di essi? Essi accusano o di loro iniziativa, per la speranza della libertà, o per imposizione, costretti da sevizie. (12) L'impresa, poi, come si svolse? È chiaro che bisognava introdurre dei nemici più forti di voi; ciò che è impossibile. E come poi li avrei introdotti? forse per le porte? ma non a me spetta il chiuderle e l'aprirle, bensì alle guardie addette a tale ufficio.
O forse dando la scalata alle mura? ma come non m'avrebbero visto? Ché le mura son tutte piene di sentinelle. O infine, facendo una breccia nel muro? Ma ciò sarebbe stato visibile a tutti; poiché si vive a cielo scoperto (vita d'accampamento) quando si è in armi; dove tutti vedono tutto, e tutti da tutti son visti. Mi era dunque impossibile, del tutto e sotto tutti gli aspetti, il far tutto ciò.
(13) Considerate insieme anche questo: a che scopo mi avrebbe giovato il voler compiere quest'azione, posto che ne avessi avuto il pieno potere? Poiché non c'è nessuno che gratuitamente voglia correre i più gravi rischi, e neppure essere così scellerato, da compiere la più grande delle scelleratezze. Dunque, a che scopo? torno a chiedervi; forse per dominare? su voi o sui barbari? Ma su voi, impossibile; ché tanti siete e tali, che tutti i doni più grandi li avete: virtù di antenati, abbondanza di ricchezze, gesta eroiche, arditi disegni, domini di città.
(14) O forse sui Ma chi mi cederà il potere? o con quali mezzi conquisterò, io greco, dei barbari; io solo, una moltitudine? con la persuasione o con la forza? Ma né essi si lascerebbero persuadere, né io riuscirei a costringerli. O forse si sottometteranno, d'accordo loro ed io, dandosi in cambio come prezzo del tradimento? Ma prestarvi fede e accettarlo sarebbe insigne follia; chi mai infatti preferirebbe il servire al regnare - all'ottimo stato, il pessimo? (15) Si potrà dire che per cupidigia di ricchezze e di beni io tentai quest'impresa. Ma, da un lato, io posseggo una discreta fortuna; dall'altro, non aspiro a ricchezze più grandi. Infatti hanno bisogno di molto denaro coloro che molto spendono; non quelli che comandano alla libidine dei sensi, ma quelli che della libidine sono schiavi, e che con l'aiuto della ricchezza e della magnificenza aspirano ad acquistare onori. Ma nulla c'è in me di questi desideri; e ch'io dica il vero, vi citerò come testimone degna di fede la mia vita passata, della qual testimone siete voi testimoni; ché vivete con me, e perciò sapete bene queste cose. (16) E invero, neppur per brama di onori si metterebbe in tali imprese un uomo che avesse solo un briciolo di senno. Ché gli onori vengono dalla virtù, non dal vizio, e un traditore della Grecia che onore potrebbe ottenere? D'altronde, a me non mancavano onori, poiché ero onorato, per cosa la più onoranda, dagli uomini più onorandi: da voi, per la sapienza. (17) E neppure potrebbe essere il bisogno di sicurezza la ragione d'un atto simile. Ché a tutti è odioso il traditore: alla legge, alla giustizia, agli dèi, alla moltitudine; perché viola la legge, infrange la giustizia, corrompe la moltitudine, offende la divinità. E per chi vive una vita simile, tra i più grandi pericoli, non c'è sicurezza. (18) Ma forse, con l'intenzione di giovare ad amici, nuocere a nemici? Ché si potrebbe commettere la colpa anche per queste ragioni. Ma io avrei fatto il contrario: avrei nociuto agli amici, avrei giovato ai nemici. Dunque, quest'impresa non avrebbe portato nessun vantaggio; né c'è alcuno che lavori d'astuzia per desiderio di averne danno. (19) Resta se io agii per fuggire o un timore, o una fatica, o un pericolo. Ma queste ragioni, nessuno potrebbe dire in che mi riguardino. Poiché due son le ragioni per cui tutti fan tutto: o per conseguire un guadagno, o per evitare una pena; e tutto quanto si macchina per ragioni diverse da queste, 〈reca del danno a chi lo fa〉.75* Che io avrei fatto del male a me stesso, oprando così, è fuor di dubbio: poiché tradendo la Grecia avrei tradito me stesso, genitori, amici, dignità di antenati, templi aviti, tombe, città patria, la più grande della Grecia; e quelle cose appunto che a tutti stanno più a cuore, io le avrei gettate in mano a gente ostile. (20) Considerate ancora: che vita impossibile a viversi sarebbe stata la mia, se avessi fatto ciò? dove rivolgere i passi? forse in Grecia? per pagare la pena a quelli che avevo offeso? e chi infatti, degli offesi da me, mi avrebbe risparmiato? O se no, rimanere tra i barbari? noncurante di quanto forma il massimo bene dell'uomo, privato dell'onore più bello, costretto a vivere in turpissima infamia, rinnegate tutte le fatiche sostenute per vivere virtuosamente nel passato? e questo, per opera mia! che è la massima vergogna per un uomo, essere infelice per propria colpa. (21) Né invero pur tra i barbari avrei potuto vivere con fiducia; in che modo infatti, dato che essi avrebbero saputo aver io commesso la più grande infedeltà, cioè tradito gli amici ai nemici? E senza fiducia, la vita non si può vivere. Chi abbia perso le sostanze, o sia caduto dal potere, o sia esiliato dalla patria, può sempre ricuperar queste cose; ma chi abbia perso la fiducia, non la può più riacquistare. Così dunque resta dimostrato che né avrei voluto 〈potendo, né, volendo, avrei potuto〉 tradire la Grecia. (22) Voglio, dopo ciò, discutere col mio accusatore. A chi mai prestasti fede per muover l'accusa, un uomo quale tu sei, contro uno quale son io? poiché merita che si sappia, tu che sei quel che sei, che cosa ti permetti di dire, tu così indegno, contro di me immeritevole. Quello di cui mi accusi lo sai per prova, o solo lo supponi? Ché se lo sai per prova, l'hai saputo o perché l'hai visto, o perché vi hai partecipato, o perché t'è stato detto da uno che vi partecipò. Se l'hai visto, rivela a costoro 〈il modo〉, il luogo, il tempo, quando e dove e come vedesti; se hai partecipato, sei implicato nella medesima accusa; se l'hai udito da uno che vi partecipò, questo stesso, chiunque sia, si faccia avanti, si mostri, testimoni. Poiché l'accusa, così attestata, sarà più degna di fede; dato che ora appunto né tu né io abbiamo testimoni da produrre. (23) Dirai, forse, che il non produrre tu testimoni di cose secondo te avvenute, equivale al non produrli io, di cose non avvenute. Ma non è lo stesso; perché è in certo modo impossibile testimoniare di una cosa che non è avvenuta; mentre di ciò che è avvenuto, non solo non è impossibile, ma anzi, facile; e non solo facile, ma 〈anche indispensabile〉; a te invece non è riuscito di trovare non solo dei testimoni, ma neppure dei falsi testimoni; mentre a me non sarebbe possibile trovarne alcuno né degli uni né degli altri. (24) È chiaro pertanto che tu non hai le prove delle accuse che muovi; resta dunque che tu, senza saper nulla di certo, ti fondi su congetture. Tu dunque, o il più temerario degli uomini, fidandoti sull'apparenza, la più infida delle cose, senza conoscere la verità, osi accusare un uomo di delitto capitale? che delitto di tal genere ti consta ch'egli abbia commesso? Vero è che il congetturare è comune a tutti, e su qualsiasi cosa; né per nulla tu sei in ciò più esperto degli altri. Ma né si deve prestar fede a chi congettura, bensì a chi sa di certo; né è da ritenersi più degna di fede l'opinione che la verità, bensì, al contrario, la verità più dell'opinione.
(25) Inoltre, nell'accusa che hai pronunziato contro di me, mi hai attribuito due qualità, che sono diametralmente opposte: accortezza e pazzia, le quali non possono trovarsi nella medesima persona. Giacché in quanto mi definisci scaltro e abile e ingegnoso, mi accusi d'accortezza, in quanto sostieni ch'io tradivo la Grecia, di pazzia; ché è pazzia il tentar delle imprese impossibili a effettuarsi, e inutili, e disonorevoli, con le quali si nuocerà agli amici, si gioverà ai nemici, e si renderà la propria vita esecranda e malsicura. Pertanto, come si può prestar fede a un tal uomo, il quale nello stesso discorso, parlando alle stesse persone, sugli stessi argomenti, afferma cose assolutamente contrarie?
(26) Vorrei poi sapere da te, se gli uomini accorti li reputi savi o pazzi; se pazzi, sarà un modo nuovo di ragionare, ma non esatto; se savi, non certo si addice a gente assennata il macchiarsi delle più gravi colpe e preferire il male al bene di cui può godere. Se dunque sono accorto, non commisi colpa; se commisi colpa, non sono accorto. Sicché in ambedue i casi tu saresti convinto di menzogna. (27) E sebbene io potrei di rimando accusarti di colpe e molte e grandi, e antiche e recenti, tuttavia non voglio farlo; ché non per i tuoi demeriti, ma per i miei meriti voglio difendermi da quest'accusa. Quanto ho detto, dunque, va a te.
(28) A voi poi, signori giudici, voglio parlare di me; sarà antipatico, ma vero; e se forse non sta bene in chi 〈non〉 è accusato, a un accusato s'addice. Poiché ora, rivolgendomi a voi, voglio anche render conto della mia vita passata, vi prego, se mai io vi richiami alla mente qualcuna delle buone azioni da me compiute, di non far opposizione al mio dire, ma di ritener necessario che uno, accusato di colpe orribili, e falsamente, possa citare qualcuna delle buone azioni da lui realmente compiute, dinanzi a voi che le conoscete; la qual cosa è per me sollievo grandissimo.
(29) La prima e la seconda, che è poi anche la principale, son queste: che tutta quanta la mia vita passata, dal principio alla fine, è impeccabile, pura di qualsiasi colpa; nessuno infatti potrebbe dinanzi a voi rinfacciarmi alcuna accusa fondata di disonestà. Tanto vero, che neppure l'accusatore portò alcuna prova delle accuse pronunziate; e così il suo discorso equivale ad una diffamazione senza argomenti di fatto. (30) E potrei anche affermare - e affermandolo, né mentirei, né potrei essere smentito - non solo d'essere stato senza colpa, ma per di più, d'essere stato gran benefattore e di voi, e dei Greci, e di tutti gli uomini, e non 〈solo〉 dei contemporanei, ma 〈ancora〉 dei posteri. Infatti, chi altri avrebbe saputo rendere la vita umana facile da difficile che era, e civile da incolta, inventando le regole dell'arte della guerra, cosa essenziale per trovarsi in condizioni di superiorità, e le leggi scritte custodi della giustizia,
76* e l'alfabeto strumento della memoria, e misure e pesi, comodi mezzi di scambio nei rapporti commerciali, e il numero custode dei beni, e i fuochi, efficacissimi e velocissimi messaggeri, e gli scacchi, passatempo immune da affanni? Ma a che vi richiamo tutto questo alla mente? (31) Per dimostrarvi, da un lato, che di tal genere son le cose cui attendo; per argomentarne, dall'altro, che dalle azioni turpi e malvage io mi tengo lontano; ché chi attende a quelle, che attenda a queste è impossibile. Onde sostengo che se in nulla io vi offesi, neppur io debba esser offeso da voi. (32) Né c'è alcun altro lato della mia condotta per cui io meriti che mi si faccia ingiuria, né da parte di giovani, né da vecchi. Ché ai vecchi non do noia, ai giovani non sono inutile; verso i felici non invidioso, verso gl'infelici pietoso; non spregio la povertà, né antepongo la ricchezza alla virtù, anzi la virtù alla ricchezza; non disutile nei consigli, non ignavo nelle battaglie, eseguo gli ordini, obbedisco a chi comanda. Ma non sta a me il lodarmi; se non che la circostanza presente mi costrinse, accusato come sono di tali colpe, a difendermi con tutti i mezzi.
(33) Resta ch'io parli di voi a voi; dopo di che darò termine alla difesa. La compassione e le suppliche e le istanze degli amici son mezzi giovevoli quando chi deve giudicare è la folla; ma di fronte a voi, che siete e godete fama d'esser primi tra i Greci, non con soccorsi di amici né con suppliche né con gemiti conviene ch'io vi persuada [cfr. Hel. 10]; bensì con la forza del più manifesto diritto, dichiarandovi il vero, non cercando d'ingannarvi, debbo io liberarmi da quest'accusa. (34) Voi poi non dovete por mente alle parole piuttosto che alle azioni, né dar peso maggiore alle accuse che alle difese, né ritener più savio giudice il breve tempo anziché il lungo, né stimar più degna di fede la calunnia che la prova di fatto. Poiché in tutte le cose le persone dabbene devono guardarsi attentamente dall'errore; ma molto di più nelle irreparabili che nelle riparabili; perché ad esse può rimediarsi con la previdenza, ma sono del tutto irrimediabili col pentimento [cfr.
ANTIPH. or. V 91]. Un caso di tal genere è appunto quando degli uomini devono giudicare un uomo di delitto capitale; come ora qui dinanzi a voi. (35) Che se per mezzo delle parole la verità dei fatti apparisse all'uditorio schietta e manifesta, agevole sarebbe ormai il giudizio, come risultato delle cose già dette. Ma dal momento che non è così, tenete pure in prigione il mio corpo, attendete più a lungo, ma almeno giudicate ispirandovi alla verità. Grave rischio correte col mostrarvi ingiusti, di distruggervi una fama e di farvene un'altra. Ma per gli uomini dabbene è preferibile la morte all'infamia; ché quella è fine della vita, questa un male che corrode la vita. (36) Che se mi manderete a morte ingiustamente, molti verranno a saperlo; ché io non sono uno sconosciuto; sicché a tutti i Greci diventerà nota e manifesta la vostra malvagità. E la colpa, a tutti manifesta, dell'ingiustizia, a voi sarà attribuita, non all'accusatore; poiché in voi sta la sentenza. Né potrebbe esservi più grave errore di questo. Ché non solo contro di me e i miei genitori vi renderete colpevoli col giudicarmi ingiustamente, ma anche verso voi stessi vi accorgerete di aver commesso un atto terribile, empio, ingiusto ed iniquo, col condannare a morte un compagno di lotta, utile a voi, benemerito della Grecia - un greco, voi Greci; senza aver provato di lui alcuna disonestà manifesta, o colpa degna di fede.
(37) Dette le mie ragioni, fo punto. Ché il riepilogare in breve quanto diffusamente s'è detto ha un motivo di fronte a giudici di poco valore; ma che voi, primi tra i primi - e Greci tra Greci - non abbiate prestato attenzione o non ricordiate le cose dette, non è neppur da pensarlo.

ΤΟΥ ΑΥΤΟΥ ΥΠΕΡ ΠΑΛΑΜΗΔΟΥΣ ΑΠΟΛΟΓΙΑ

82 B 11 a. (1) Ἡ μὲν κατηγορία καὶ ἡ ἀπολογία κρίσις οὐ περὶ θανάτου [γίγνεσθαι]˙ θάνατον μὲν γὰρ ἡ φύσις φανερᾶι τῆι ψήφωι πάντων [II 295. 1 App.] κατεψηφίσατο τῶν θνητῶν, ἧιπερ ἡμέραι ἐγένετο˙ περὶ δὲ τῆς ἀτιμίας καὶ τῆς τιμῆς ὁ κίνδυνός ἐστι, πότερά με χρὴ δικαίως ἀποθανεῖν ἢ μετ' ὀνειδῶν μεγίστων καὶ τῆς αἰσχίστης αἰτίας βιαίως ἀποθανεῖν. (2) δισσῶν δὲ τούτων ὄντων τοῦ μὲν ὅλου ὑμεῖς κρατεῖτε, τοῦ [II 295. 5 App.] δ' ἐγώ, τῆς μὲν δίκης ἐγώ, τῆς δὲ βίας ὑμεῖς. ἀποκτεῖναι μὲν γάρ με δυνήσεσθε βουλόμενοι ῥαιδίως˙ κρατεῖτε γὰρ καὶ τούτων, ὧν οὐδὲν ἐγὼ τυγχάνω κρατῶν. (3) εἰ μὲν οὖν ὁ κατήγορος Ὀδυσσεὺς ἢ σαφῶς ἐπιστάμενος προδιδόντα με τὴν Ἑλλάδα τοῖς βαρβάροις ἢ δοξάζων γ' ἁμῆ οὕτω ταῦτα ἔχειν ἐποιεῖτο τὴν κατηγορίαν δι' εὔνοιαν [II 295. 10 App.] τῆς Ἑλλάδος, ἄριστος ἂν ἦν [] ἀνήρ˙ πῶς γὰρ 〈οὔχ〉, ὅς γε σώιζει πατρίδα, τοκέας, τὴν πᾶσαν Ἑλλάδα, ἔτι δὲ πρὸς τούτοις τὸν ἀδικοῦντα τιμωρούμενος; εἰ δὲ φθόνωι ἢ κακοτεχνίαι ἢ πανουργίαι συνέθηκε ταύτην τὴν αἰτίαν, ὥσπερ δι' ἐκεῖνα κράτιστος ἂν ἦν ἀνήρ, οὕτω διὰ ταῦτα κάκιστος ἀνήρ. (4) περὶ τούτων δὲ λέγων πόθεν [II 295. 15 App.] ἄρξωμαι; τί δὲ πρῶτον εἴπω; ποῖ δὲ τῆς ἀπολογίας τράπωμαι; αἰτία γὰρ ἀνεπίδεικτος ἔκπληξιν ἐμφανῆ ἐμποιεῖ, διὰ δὲ τὴν ἔκπληξιν ἀπορεῖν ἀνάγκη τῶι λόγωι, ἂν μή τι παρ' αὐτῆς τῆς ἀληθείας καὶ τῆς παρούσης ἀνάγκης μάθω, διδασκάλων ἐπικινδυνοτέρων ἢ ποριμωτέρων τυχών. (5) ὅτι μὲν οὖν οὐ σαφῶς 〈εἰδὼς〉 ὁ κατήγορος [II 295. 20 App.] κατηγορεῖ μου, σαφῶς οἶδα˙ σύνοιδα γὰρ ἐμαυτῶι σαφῶς οὐδὲν τοιοῦτον πεποιηκώς˙ οὐδὲ οἶδ' ὅπως ἂν εἰδείη τις ὂν τὸ μὴ γενόμενον. εἰ δὲ οἰόμενος οὕτω ταῦτα ἔχειν ἐποιεῖτο τὴν κατηγορίαν, οὐκ ἀληθῆ λέγειν διὰ δισσῶν ὑμῖν ἐπιδείξω τρόπων˙ οὔτε γὰρ βουληθεὶς ἐδυνάμην ἂν οὔτε δυνάμενος ἐβουλήθην ἔργοις ἐπιχειρεῖν τοιούτοις. [II 295. 25 App.] (6) ἐπὶ τοῦτον δὲ τὸν λόγον εἶμι πρῶτον, ὡς ἀδύνατός εἰμι τοῦτο πράττειν. ἔδει γάρ τινα πρῶτον ἀρχὴν γενέσθαι τῆς προδοσίας, ἡ δὲ ἀρχὴ λόγος ἂν εἴη˙ πρὸ γὰρ τῶν μελλόντων ἔργων ἀνάγκη [II 296. 1 App.] λόγους γίνεσθαι πρότερον. λόγοι δὲ πῶς ἂν γένοιντο μὴ συνουσίας τινὸς γενομένης; συνουσία δὲ τίνα τρόπον γένοιτ' ἂν μήτ' ἐκείνου πρὸς ἐμὲ πέμψαντος μήτε 〈του〉 παρ' ἐμοῦ πρὸς ἐκεῖνον ἐλθόντος; οὐδὲ γὰρ ἀγγελία διὰ γραμματείων ἀφῖκται ἄνευ τοῦ φέροντος. [II 296. 5 App.] (7) ἀλλὰ δὴ τοῦτο τῶι λόγωι δυνατὸν γενέσθαι. καὶ δὴ τοίνυν σύνειμι καὶ σύνεστι κἀκεῖνος ἐμοὶ κἀκείνωι ἐγώ-τίνα τρόπον; τίνι τίς ὤν; Ἕλλην βαρβάρωι. πῶς ἀκούων καὶ λέγων; πότερα μόνος μόνωι; ἀλλ' ἀγνοήσομεν τοὺς ἀλλήλων λόγους. ἀλλὰ μεθ' ἑρμηνέως; τρίτος ἄρα μάρτυς γίνεται τῶν κρύπτεσθαι δεομένων.
(8) ἀλλὰ δὴ καὶ τοῦτο [II 296. 10 App.] γενέσθω, καίπερ οὐ γενόμενον. ἔδει δὲ μετὰ τούτους πίστιν δοῦναι καὶ δέξασθαι. τίς οὖν ἂν ἦν ἡ πίστις; πότερον ὅρκος; τίς οὖν ἐμοὶ τῶι προδότηι πιστεύειν ἔμελλεν; ἀλλ' ὅμηροι; τίνες; οἷον ἐγὼ τὸν ἀδελφὸν ἔδωκ' ἄν (οὐ γὰρ εἶχον ἄλλον), ὁ δὲ βάρβαρος τῶν υἱέων τινά˙ πιστότατα γὰρ ἂν ἦν οὕτως ἐμοί τε παρ' ἐκείνου ἐκείνωι τε παρ' [II 296. 15 App.] ἐμοῦ. ταῦτα δὲ γινόμενα πᾶσιν ὑμῖν ἂν ἦν φανερά. (9) φήσει τις ὡς χρήμασι τὴν πίστιν ἐποιούμεθα, ἐκεῖνος μὲν διδούς, ἐγὼ δὲ λαμβάνων. πότερον οὖν ὀλίγοις; ἀλλ' οὐκ εἰκὸς ἀντὶ μεγάλων ὑπουργημάτων ὀλίγα χρήματα λαμβάνειν. ἀλλὰ πολλοῖς; τίς οὖν ἦν ἡ κομιδή; πῶς δ' ἂν 〈εἷς〉 ἐκόμισεν; ἢ πολλοί; πολλῶν γὰρ κομιζόντων πολλοὶ [II 296. 20 App.] ἂν ἦσαν μάρτυρες τῆς ἐπιβουλῆς, ἑνὸς δὲ κομίζοντος οὐκ ἂν πολύ τι τὸ φερόμενον ἦν. (10) πότερα δὲ ἐκόμισαν ἡμέρας ἢ νυκτός; ἀλλὰ πολλαὶ καὶ πυκναὶ φυλακαί, δι' ὧν οὐκ ἔστι λαθεῖν. ἀλλ' ἡμέρας; ἀλλά γε τὸ φῶς πολεμεῖ τοῖς τοιούτοις. εἶεν. ἐγὼ δ' ἐξελθὼν ἐδεξάμην, ἢ ἐκεῖνος ὁ φέρων εἰσῆλθεν; ἀμφότερα γὰρ ἄπορα. λαβὼν [II 296. 25] δὲ δὴ πῶς ἂν ἔκρυψα καὶ τοὺς ἔνδον καὶ τοὺς ἔξω; ποῦ δ' ἂν ἔθηκα; πῶς δ' ἂν ἐφύλαξα; χρώμενος δ' ἂν φανερὸς ἐγενόμην, μὴ χρώμενος [II 297. 1 App.] δὲ τί ἂν ὠφελούμην ἀπ' αὐτῶν; (11) καὶ δὴ τοίνυν γενέσθω καὶ τὰ μὴ γενόμενα. συνήλθομεν, εἴπομεν, ἠκούσαμεν, χρήματα παρ' αὐτῶν ἔλαβον, ἔλαθον λαβών, ἔκρυψα. ἔδει δήπου πράττειν ὧν ἕνεκα ταῦτα ἐγένετο. τοῦτο τοίνυν ἔτι τῶν εἰρημένων ἀπορώτερον. πράττων [II 297. 5 App.] μὲν γὰρ αὐτὸς ἔπραττον ἢ μεθ' ἑτέρων˙ ἀλλ' οὐχ ἑνὸς ἡ πρᾶξις. ἀλλὰ μεθ' ἑτέρων; τίνων; δηλονότι τῶν συνόντων. πότερον ἐλευθέρων ἢ δούλων; ἐλευθέροις μὲν γὰρ ὑμῖν σύνειμι. τίς οὖν ὑμῶν ξύνοιδε; λεγέτω. δούλοις δὲ πῶς οὐκ ἄπιστον; ἑκόντες 〈τε〉 γὰρ ἐπ' ἐλευθερίαι χειμαζόμενοί τε δι' ἀνάγκην κατηγοροῦσιν. (12) ἡ δὲ πρᾶξις [II 297. 10 App.] πῶς 〈ἂν〉 ἐγένετο; δηλονότι τοὺς πολεμίους εἰσαγαγεῖν ἔδει κρείττονας ὑμῶν˙ ὅπερ ἀδύνατον. πῶς ἂν οὖν εἰσήγαγον; πότερα διὰ πυλῶν; ἀλλ' οὐκ ἐμὸν ταύτας οὔτε κλήιειν οὔτε ἀνοίγειν, ἀλλ' ἡγεμόνες κύριοι τούτων. ἀλλ' ὑπὲρ τειχέων 〈διὰ〉 κλίμακος; οὔκουν 〈ἐφωράθην ἄν;〉 ἅπαντα γὰρ πλήρη φυλακῶν. ἀλλὰ διελὼν τοῦ τείχους; [II 297. 15 App.] ἅπασιν ἄρα φανερὰ γένοιτο ἄν. ὑπαίθριος γὰρ ὁ βίος (στρατόπεδον γάρ) ἔστ' ἐν ὅπλοις, ἐν οἷς 〈πάντες〉 πάντα ὁρῶσι καὶ πάντες ὑπὸ πάντων ὁρῶνται. πάντως ἄρα καὶ πάντηι πάντα πράττειν ἀδύνατον ἦν μοι.
(13) σκέψασθε κοινῆ καὶ τόδε. τίνος ἕνεκα προσῆκε βουληθῆναι [II 297. 20 App.] ταῦτα πράττειν, εἰ μάλιστα πάντων ἐδυνάμην; οὐδεὶς γὰρ βούλεται προῖκα τοὺς μεγίστους κινδύνους κινδυνεύειν οὐδὲ τὴν μεγίστην κακότητα εἶναι κάκιστος. ἀλλ' ἕνεκα τοῦ; (καὶ αὖθις πρὸς τόδ' ἐπάνειμι.) πότερον 〈τοῦ〉 τυραννεῖν; ὑμῶν ἢ τῶν βαρβάρων; ἀλλ' ὑμῶν [ἀλλ'] ἀδύνατον τοσούτων καὶ τοιούτων, οἷς ὑπάρχει ἅπαντα [II 297. 25 App.] μέγιστα, προγόνων ἀρεταί, χρημάτων πλῆθος, ἀριστεῖαι, ἀλκὴ φρονημάτων, βασιλεία πόλεων. (14) ἀλλὰ τῶν 〈βαρβάρων〉; ὁ δὲ παραδώσων [II 298. 1 App.] τίς; ἐγὼ δὲ ποίαι δυνάμει παραλήψομαι Ἕλλην βαρβάρους, εἷς ὢν πολλούς; πείσας ἢ βιασάμενος; οὔτε γὰρ ἐκεῖνοι πεισθῆναι βούλοιντ' ἄν, οὔτ' ἐγὼ βιάσασθαι δυναίμην. ἀλλ' ἴσως ἑκόντες ἑκόντι παραδώσουσιν, μισθὸν τῆς προδοσίας ἀντιδιδόντες; ἀλλά γε ταῦτα [II 298. 5 App.] πολλῆς μωρίας καὶ πιστεῦσαι καὶ δέξασθαι˙ τίς γὰρ ἂν ἕλοιτο δουλείαν ἀντὶ βασιλείας, ἀντὶ τοῦ κρατίστου τὸ κάκιστον; (15) εἴποι τις ἂν ὅτι πλούτου καὶ χρημάτων ἐρασθεὶς ἐπεχείρησα τούτοις. ἀλλὰ χρήματα μὲν μέτρια κέκτημαι, πολλῶν δὲ οὐθὲν δέομαι˙ πολλῶν γὰρ δέονται χρημάτων οἱ πολλὰ δαπανῶντες, ἀλλ' οὐχ οἱ [II 298. 10 App.] κρείττονες τῶν τῆς φύσεως ἡδονῶν, ἀλλ' οἱ δουλεύοντες ταῖς ἡδοναῖς καὶ ζητοῦντες ἀπὸ πλούτου καὶ μεγαλοπρεπείας τὰς τιμὰς κτᾶσθαι. τούτων δὲ ἐμοὶ πρόσεστιν οὐθέν. ὡς δ' ἀληθῆ λέγω, μάρτυρα πιστὸν παρέξομαι τὸν παροιχόμενον βίον˙ τῶι δὲ μάρτυρι μάρτυρες ὑμεῖς ἦτε˙ σύνεστε γάρ μοι, διὸ σύνιστε ταῦτα. (16) καὶ μὴν οὐδ' ἂν [II 298. 15 App.] τιμῆς ἕνεκα τοιούτοις ἔργοις ἀνὴρ ἐπιχειρήσειε καὶ μέσως φρόνιμος. ἀπ' ἀρετῆς γὰρ ἀλλ' οὐκ ἀπὸ κακότητος αἱ τιμαί˙ προδότηι δὲ τῆς Ἑλλάδος ἀνδρὶ πῶς ἂν γένοιτο τιμή; πρὸς δὲ τούτοις οὐδὲ τιμῆς ἐτύγχανον ἐνδεὴς ὤν˙ ἐτιμώμην γὰρ ἐπὶ τοῖς ἐντιμοτάτοις ὑπὸ τῶν ἐντιμοτάτων, ὑφ' ὑμῶν ἐπὶ σοφίαι. (17) καὶ μὴν οὐδ' ἀσφαλείας [II 298. 20 App.] [ὧν] οὕνεκά τις ἂν ταῦτα πράξαι. πᾶσι γὰρ ὅ γε προδότης πολέμιος, τῶι νόμωι, τῆι δίκηι, τοῖς θεοῖς, τῶι πλήθει τῶν ἀνθρώπων˙ τὸν μὲν γὰρ νόμον παραβαίνει, τὴν δὲ δίκην καταλύει, τὸ δὲ πλῆθος διαφθείρει, τὸ δὲ θεῖον ἀτιμάζει. ὧι δὲ τοιοῦτος 〈ὁ〉 βίος περὶ κινδύνων τῶν μεγίστων, οὐκ ἔχει ἀσφάλειαν. (18) ἀλλὰ δὴ φίλους [II 298. 25 App.] ὠφελεῖν βουλόμενος ἢ πολεμίους βλάπτειν; καὶ γὰρ τούτων ἕνεκά τις ἂν ἀδικήσειεν. ἐμοὶ δὲ πᾶν τοὐναντίον ἐγίνετο˙ τοὺς μὲν φίλους κακῶς ἐποίουν, τοὺς δὲ ἐχθροὺς ὠφέλουν. ἀγαθῶν μὲν οὖν κτῆσιν οὐδεμίαν εἶχεν ἡ πρᾶξις˙ κακῶς δὲ παθεῖν οὐδὲ εἷς ἐπιθυμῶν πανουργεῖ. (19) τὸ δὲ λοιπόν ἐστιν, εἴ τινα φόβον ἢ πόνον [II 298. 30 App.] ἢ κίνδυνον φεύγων ἔπραξα. ταῦτα δ' οὐθεὶς ἂν εἰπεῖν ἔχοι τί μοι [II 299. 1 App.] προσήκειν. δισσῶν γὰρ τούτων ἕνεκα πάντες πάντα πράττουσιν, ἢ κέρδος τι μετιόντες ἢ ζημίαν φεύγοντες˙ ὅσα δὲ τούτων ἔξω πανουργεῖται ** κακῶς ἐμαυτὸν ἐποίουν ταῦτα [γὰρ] πράττων, οὐκ ἄδηλον˙ προδιδοὺς γὰρ τὴν Ἑλλάδα προὐδίδουν ἐμαυτόν, τοκέας, φίλους, [II 299. 5 App.] ἀξίωμα προγόνων, ἱερὰ πατρῶια, τάφους, πατρίδα τὴν μεγίστην τῆς Ἑλλάδος. ἃ δὲ πᾶσι περὶ παντός ἐστι, ταῦτα ἂν τοῖς ἀδικηθεῖσιν ἐνεχείρισα. (20) σκέψασθε δὲ καὶ τόδε. πῶς οὐκ ἂν ἀβίωτος ἦν ὁ βίος μοι πράξαντι ταῦτα; ποῖ γὰρ τραπέσθαι με χρῆν; πότερον εἰς τὴν Ἑλλάδα; δίκην δώσοντα τοῖς ἠδικημένοις; τίς δ' ἂν ἀπείχετό [II 299. 10 App.] μου τῶν κακῶς πεπονθότων; ἀλλὰ μένειν ἐν τοῖς βαρβάροις; παραμελήσαντα πάντων τῶν μεγίστων, ἐστερημένον τῆς καλλίστης τιμῆς, ἐν αἰσχίστηι δυσκλείαι διάγοντα, τοὺς ἐν τῶι παροιχομένωι βίωι πόνους ἐπ' ἀρετῆι πεπονημένους ἀπορρίψαντα; καὶ ταῦτα δι' ἐμαυτόν, ὅπερ αἴσχιστον ἀνδρί, δυστυχεῖν δι' αὑτόν. (21) οὐ μὴν οὐδὲ παρὰ [II 299. 15 App.] τοῖς βαρβάροις πιστῶς ἂν διεκείμην˙ πῶς γάρ, οἵτινες ἀπιστότατον ἔργον συνηπίσταντό μοι πεποιηκότι, τοὺς φίλους τοῖς ἐχθροῖς παραδεδωκότι; βίος δὲ οὐ βιωτὸς πίστεως ἐστερημένωι. χρήματα μὲν γὰρ ἀποβαλὼν 〈ἢ〉 τυραννίδος ἐκπεσὼν ἢ τὴν πατρίδα φυγὼν ἀναλάβοι τις ἄν˙ ὁ δὲ πίστιν ἀποβαλὼν οὐκ ἂν ἔτι κτήσαιτο. ὅτι μὲν [II 299. 20 App.] οὖν οὔτ' ἂν ἐβουλόμην 〈δυνάμενος οὔτ' ἂν βουλόμενος ἐδυνάμην〉 προδοῦναι τὴν Ἑλλάδα, διὰ τῶν προειρημένων δέδεικται.
(22) βούλομαι δὲ μετὰ ταῦτα πρὸς τὸν κατήγορον διαλεχθῆναι. τίνι ποτὲ πιστεύσας τοιοῦτος ὢν τοιούτου κατηγορεῖς; ἄξιον γὰρ καταμαθεῖν, οἷος ὢν οἷα λέγεις ὡς ἀνάξιος ἀναξίωι. πότερα γάρ μου [II 299. 25 App.] κατηγορεῖς εἰδὼς ἀκριβῶς ἢ δοξάζων; εἰ μὲν γὰρ εἰδώς, οἶσθα ἰδὼν ἢ μετέχων ἤ του 〈μετέχοντος〉 πυθόμενος. εἰ μὲν οὖν ἰδών, φράσον τούτοις 〈τὸν τρόπον〉, τὸν τόπον, τὸν χρόνον, πότε, ποῦ, πῶς [II 300. 1 App.] εἶδες˙ εἰ δὲ μετέχων, ἔνοχος εἷς ταῖς αὐταῖς αἰτίαις˙ εἰ δέ του μετέχοντος ἀκούσας, ὅστις ἐστίν, αὐτὸς ἐλθέτω, φανήτω, μαρτυρησάτω. πιστότερον γὰρ οὕτως ἔσται τὸ κατηγόρημα μαρτυρηθέν. ἐπεὶ νῦν γε οὐδέτερος ἡμῶν παρέχεται μάρτυρα. (23) φήσεις ἴσως [II 300. 5 App.] ἴσον εἶναι τὸ σέ γε τῶν γενομένων, ὡς σὺ φήις, μὴ παρέχεσθαι μάρτυρας, τῶν δὲ μὴ γενομένων ἐμέ. τὸ δὲ οὐκ ἴσον ἐστί˙ τὰ μὲν γὰρ ἀγένητά πως ἀδύνατα μαρτυρηθῆναι, περὶ δὲ τῶν γενομένων οὐ μόνον οὐκ ἀδύνατον, ἀλλὰ καὶ ῥάιδιον, οὐδὲ μόνον ῥάιδιον, ἀλλὰ 〈καὶ ἀναγκαῖον˙ ἀλλὰ〉 σοὶ μὲν οὐκ ἦν οἷόν 〈τε μὴ〉 μόνον μάρτυρας [II 300. 10 App.] ἀλλὰ καὶ ψευδομάρτυρας εὑρεῖν, ἐμοὶ δὲ οὐδέτερον εὑρεῖν τούτων δυνατόν. (24) ὅτι μὲν οὖν οὐκ οἶσθα ἃ κατηγορεῖς, φανερόν˙ τὸ δὴ λοιπὸν 〈οὐκ〉 εἰδότα σε δοξάζειν. εἶτα, ὦ πάντων ἀνθρώπων τολμηρότατε, δόξηι πιστεύσας, ἀπιστοτάτωι πράγματι, τὴν ἀλήθειαν οὐκ εἰδώς, τολμᾶις ἄνδρα περὶ θανάτου διώκειν; ὧι τί τοιοῦτον ἔργον [II 300. 15 App.] εἰργασμένωι σύνοισθα; ἀλλὰ μὴν τό γε δοξάσαι κοινὸν ἅπασι περὶ πάντων, καὶ οὐδὲν ἐν τούτωι σὺ τῶν ἄλλων σοφώτερος. ἀλλ' οὔτε τοῖς δοξάζουσι δεῖ πιστεύειν ἀλλὰ τοῖς εἰδόσιν, οὔτε τὴν δόξαν τῆς ἀληθείας πιστοτέραν νομίζειν, ἀλλὰ τἀναντία τὴν ἀλήθειαν τῆς δόξης. (25) κατηγόρησας δέ μου διὰ τῶν εἰρημένων λόγων δύο τὰ ἐναντιώτατα, [II 300. 20 App.] σοφίαν καὶ μανίαν, ὥπερ οὐχ οἷον τε τὸν αὐτὸν ἄνθρωπον ἔχειν. ὅπου μὲν γάρ με φὴις εἶναι τεχνήεντά τε καὶ δεινὸν καὶ πόριμον, σοφίαν μου κατηγορεῖς, ὅπου δὲ λέγεις ὡς προὐδίδουν τὴν Ἑλλάδα, μανίαν˙ μανία γάρ ἐστιν ἔργοις ἐπιχειρεῖν ἀδυνάτοις, ἀσυμφόροις, αἰσχροῖς, ἀφ' ὧν τοὺς μὲν φίλους βλάψει, τοὺς δ' ἐχθροὺς ὠφελήσει, [II 300. 25 App.] τὸν δὲ αὑτοῦ βίον ἐπονείδιστον καὶ σφαλερὸν καταστήσει. καίτοι πῶς χρὴ ἀνδρὶ τοιούτωι πιστεύειν, ὅστις τὸν αὐτὸν λόγον λέγων πρὸς τοὺς αὐτοὺς ἄνδρας περὶ τῶν αὐτῶν τὰ ἐναντιώτατα λέγει; (26) βουλοίμην δ' ἂν παρὰ σοῦ πυθέσθαι, πότερον τοὺς σοφοὺς ἄνδρας νομίζεις ἀνοήτους ἢ φρονίμους. εἰ μὲν γὰρ ἀνοήτους, καινὸς ὁ [II 300. 30 App.] λόγος, ἀλλ' οὐκ ἀληθής˙ εἰ δὲ φρονίμους, οὐ δήπου προσήκει τούς γε φρονοῦντας ἐξαμαρτάνειν τὰς μεγίστας ἁμαρτίας καὶ μᾶλλον αἱρεῖσθαι κακὰ [II 301. 1 App.] πρὸ παρόντων ἀγαθῶν. εἰ μὲν οὖν εἰμι σοφός, οὐχ ἥμαρτον˙ εἰ δ' ἥμαρτον, οὐ σοφός εἰμι. οὐκοῦν δι' ἀμφότερα ἂν εἴης ψευδής. (27) ἀντικατηγορῆσαι δέ σου πολλὰ καὶ μεγάλα καὶ παλαιὰ καὶ νέα πράσσοντος δυνάμενος οὐ βούλομαι˙ 〈βούλομαι〉 γὰρ οὐ τοῖς [II 301. 5 App.] σοῖς κακοῖς ἀλλὰ τοῖς ἐμοῖς ἀγαθοῖς ἀποφεύγειν τὴν αἰτίαν ταύτην. πρὸς μὲν οὖν σὲ ταῦτα.
(28) πρὸς δ' ὑμᾶς ὦ ἄνδρες κριταὶ περὶ ἐμοῦ βούλομαι εἰπεῖν ἐπίφθονον μὲν ἀληθὲς δέ, 〈μὴ〉 κατηγορημένωι μὲν οὐκ ἂν εἰκότα, κατηγορουμένωι δὲ προσήκοντα. νῦν γὰρ ἐν ὑμῖν εὐθύνας καὶ λόγον ὑπέχω [II 301. 10 App.] τοῦ παροιχομένου βίου. δέομαι οὖν ὑμῶν, ἂν ὑμᾶς ὑπομνήσω τῶν τι ἐμοὶ πεπραγμένων καλῶν, μηδένα φθονῆσαι τοῖς λεγομένοις, ἀλλ' ἀναγκαῖον ἡγήσασθαι κατηγορημένον δεινὰ καὶ ψευδῆ καί τι τῶν ἀληθῶν ἀγαθῶν εἰπεῖν ἐν εἰδόσιν ὑμῖν˙ ὅπερ ἥδιστόν μοι. (29) πρῶτον μὲν οὖν καὶ δεύτερον καὶ μέγιστον, διὰ παντὸς [II 301. 15] ἀπ' ἀρχῆς εἰς τέλος ἀναμάρτητος ὁ παροιχόμενος βίος ἐστί μοι, καθαρὸς πάσης αἰτίας˙ οὐδεὶς γὰρ ἂν οὐδεμίαν αἰτίαν κακότητος ἀληθῆ πρὸς ὑμᾶς περὶ ἐμοῦ εἰπεῖν ἔχοι. καὶ γὰρ οὐδ' αὐτὸς ὁ κατήγορος οὐδεμίαν ἀπόδειξιν εἴρηκεν ὧν εἴρηκεν˙ οὕτως λοιδορίαν οὐκ ἔχουσαν ἔλεγχον ὁ λόγος αὐτῶι δύναται. (30) φήσαιμι δ' ἄν, [II 301. 20 App.] καὶ φήσας οὐκ ἂν ψευσαίμην οὐδ' ἂν ἐλεγχθείην, οὐ μόνον ἀναμάρτητος ἀλλὰ καὶ μέγας εὐεργέτης ὑμῶν καὶ τῶν Ἑλλήνων καὶ τῶν ἁπάντων ἀνθρώπων, οὐ μόνον τῶν νῦν ὄντων ἀλλὰ 〈καὶ〉 τῶν μελλόντων, εἶναι. τίς γὰρ ἂν ἐποίησε τὸν ἀνθρώπειον βίον πόριμον ἐξ ἀπόρου καὶ κεκοσμημένον ἐξ ἀκόσμου, τάξεις τε πολεμικὰς εὑρὼν [II 301. 25 App.] μέγιστον εἰς πλεονεκτήματα, νόμους τε γραπτοὺς φύλακας [τε] τοῦ δικαίου, γράμματά τε μνήμης ὄργανον, μέτρα τε καὶ σταθμὰ συναλλαγῶν [II 302. 1 App.] εὐπόρους διαλλαγάς, ἀριθμόν τε χρημάτων φύλακα, πυρσούς τε κρατίστους καὶ ταχίστους ἀγγέλους, πεσσούς τε σχολῆς ἄλυπον διατριβήν; τίνος οὖν ἕνεκα ταῦθ' ὑμᾶς ὑπέμνησα; (31) δηλῶν 〈μὲν〉 ὅτι τοῖς τοιούτοις τὸν νοῦν προσέχω, σημεῖον δὲ ποιούμενος [II 302. 5 App.] ὅτι τῶν αἰσχρῶν καὶ τῶν κακῶν ἔργων ἀπέχομαι˙ τὸ γὰρ ἐκείνοις τὸν νοῦν προσέχοντα τοῖς τοιούτοις προσέχειν ἀδύνατον. ἀξιῶ δέ, εἰ μηδὲν αὐτὸς ὑμᾶς ἀδικῶ, μηδὲ αὐτὸς ὑφ' ὑμῶν ἀδικηθῆναι. (32) καὶ γὰρ οὐδὲ τῶν ἄλλων ἐπιτηδευμάτων οὕνεκα ἄξιός εἰμι κακῶς πάσχειν, οὔθ' ὑπὸ νεωτέρων οὔθ' ὑπὸ πρεσβυτέρων. τοῖς μὲν γὰρ [II 302. 10 App.] πρεσβυτέροις ἄλυπός εἰμι, τοῖς δὲ νεωτέροις οὐκ ἀνωφελής, τοῖς εὐτυχοῦσιν οὐ φθονερός, τῶν δυστυχούντων οἰκτίρμων˙ οὔτε πενίας ὑπερορῶν, οὔτε πλοῦτον ἀρετῆς ἀλλ' ἀρετὴν πλούτου προτιμῶν˙ οὔτε ἐν βουλαῖς ἄχρηστος οὔτε ἐν μάχαις ἀργός, ποιῶν τὸ τασσόμενον, πειθόμενος τοῖς ἄρχουσιν. ἀλλὰ γὰρ οὐκ ἐμὸν ἐμαυτὸν ἐπαινεῖν˙ [II 302. 15 App.] ὁ δὲ παρὼν καιρὸς ἠνάγκασε, καὶ ταῦτα κατηγορημένον, πάντως ἀπολογήσασθαι. (33) λοιπὸν δὲ περὶ ὑμῶν πρὸς ὑμᾶς ἐστί μοι λόγος, ὃν εἰπὼν παύσομαι τῆς ἀπολογίας. οἶκτος μὲν οὖν καὶ λιταὶ καὶ φίλων παραίτησις ἐν ὄχλωι μὲν οὔσης τῆς κρίσεως χρήσιμα˙ παρὰ δ' ὑμῖν τοῖς [II 302. 20 App.] πρώτοις οὖσι τῶν Ἑλλήνων καὶ δοκοῦσιν, οὐ φίλων βοηθείαις οὐδὲ λιταῖς οὐδὲ οἴκτοις δεῖ πείθειν ὑμᾶς, ἀλλὰ τῶι σαφεστάτωι δικαίωι, διδάξαντα τἀληθές, οὐκ ἀπατήσαντά με δεῖ διαφυγεῖν τὴν αἰτίαν ταύτην. (34) ὑμᾶς δὲ χρὴ μὴ τοῖς λόγοις μᾶλλον ἢ τοῖς ἔργοις προσέχειν τὸν νοῦν, μηδὲ τὰς αἰτίας τῶν ἐλέγχων προκρίνειν, μηδὲ [II 302. 25 App.] τὸν ὀλίγον χρόνον τοῦ πολλοῦ σοφώτερον ἡγεῖσθαι κριτήν, μηδὲ τὴν διαβολὴν τῆς πείρας πιστοτέραν νομίζειν. ἅπαντα γὰρ τοῖς ἀγαθοῖς ἀνδράσι μεγάλης εὐλαβείας ἁμαρτάνειν, τὰ δὲ ἀνήκεστα τῶν ἀκεστῶν ἔτι μᾶλλον˙ ταῦτα γὰρ προνοήσασι μὲν δυνατά, μετανοήσασι δὲ ἀνίατα. τῶν δὲ τοιούτων ἐστίν, ὅταν ἄνδρες ἄνδρα περὶ [II 302. 30 App.] θανάτου κρίνωσιν˙ ὅπερ ἐστὶ νῦν παρ' ὑμῖν. (35) εἰ μὲν οὖν ἦν διὰ τῶν λόγων τὴν ἀλήθειαν τῶν ἔργων καθαράν τε γενέσθαι [II 303. 1 App.] τοῖς ἀκούουσι 〈καὶ〉 φανεράν, εὔπορος ἂν εἴη κρίσις ἤδη ἀπὸ τῶν εἰρημένων˙ ἐπειδὴ δὲ οὐχ οὕτως ἔχει, τὸ μὲν σῶμα τοὐμὸν φυλάξατε, τὸν δὲ πλείω χρόνον ἐπιμείνατε, μετὰ δὲ τῆς ἀληθείας τὴν κρίσιν ποιήσατε. ὑμῖν μὲν γὰρ μέγας ὁ κίνδυνος, ἀδίκοις φανεῖσι δόξαν [II 303. 5 App.] τὴν μὲν καταβαλεῖν, τὴν δὲ κτήσασθαι. τοῖς δὲ ἀγαθοῖς ἀνδράσιν αἱρετώτερος θάνατος δόξης αἰσχρᾶς˙ τὸ μὲν γὰρ τοῦ βίου τέλος, ἡ δὲ τῶι βί