47 A 25. APUL. apol. 15. E che dire dell'affermazione che per queste ragioni il filosofo non dovrebbe neppur guardarsi, mai, allo specchio? Anzi deve non solo guardare la propria immagine, ma anche esaminare le cause dell'immagine, domandandosi se, come dice Epicuro [fr. 320; p. 221, 22; cfr. I 46 p. 10, 2 Usener], le immagini, partendo da noi, come una specie di spoglie emananti dai nostri corpi con un flusso lieve, quando incontrano un corpo levigato e solido, colpendolo, vengono riflesse, e, rimandate, corrispondono, in senso contrario, ai nostri corpi; o se siano, come sostengono altri filosofi, raggi nostri, che o partono dai nostri occhi e si mescolano e s'uniscono con la luce esterna, al modo che pensa Platone [Tim. 64 A], o partono dai nostri occhi ma senza trovare al di fuori alcun incremento, secondo che pensa Archita. 47 A 25. APUL. Apol. 15 quid, quod nec ob haec debet tantummodo philosophus speculum invisere nam saepe oportet non modo similitudinem suam, verum [I 431. 10] etiam ipsius similitudinis rationem considerare: num, ut ait Epicurus [fr. 320; p. 221, 22; vgl. I 46 p. 10, 2 Usen.], profectae a nobis imagines velut quaedam exuviae iugi fluore a corporibus manantes, cum leve aliquid et solidum offenderunt, illisae reflectantur et retro expressae contraversim respondeant an, ut alii philosophi disputant, radii nostri seu mediis oculis proliquati [I 431. 15] et lumini extrario mixti atque ita uniti, ut Plato [Tim. 64 A] arbitratur, seu tantum oculis profecti sine ullo foris amminiculo, ut Archytas putat.