31 A 37 a. ARISTOT. metaph. B 4. 1000 a 19. G Da coloro che invece argomentano secondo una linea dimostrativa bisogna informarsi chiedendo loro perché mai degli enti che derivano dai medesimi [princìpi] alcuni sono per natura eterni, mentre altri si corrompono. Ma poiché essi non ne espongono la causa né è ragionevole che le cose stiano a questo modo, è chiaro che non possono essere identici i principi e le cause di essi. Ed anche ad Empedocle, del quale si potrebbe pensare che parlasse con maggiore coerenza di chiunque altro, capita il medesimo inconveniente: pone infatti un qual certo principio come causa della corruzione, la Contesa, ma potrebbe apparire poi che essa, per nulla di meno, produca il nascere delle cose, ad eccezione dell'uno. Tutti gli altri esseri, infatti, vengono da essa, ad eccezione di dio. Dice dunque: « ... » [B 21, 9-12]. Il che è chiaro, anche prescindendo da tutto ciò; se infatti nelle cose non ci fosse la Contesa, tutte le cose sarebbero uno (come dice) quando infatti esse si riuniscono, allora «la Contesa occupa l'estremo confine» [B 36]. Per cui gli succede che quel suo beatissimo dio sia meno saggio degli altri; non conosce infatti tutte le cose: non possiede infatti la Contesa e la conoscenza è del simile con il simile: « ... » [B 109]. Ma, per tornare al punto da cui il nostro discorso ha preso le mosse, questo è chiaro, che a lui capita che la Contesa è causa della corruzione non meno che della realtà delle cose; similmente neppure l'Amicizia è la causa della realtà delle altre cose, poiché le distrugge raccogliendole nell'uno. Contemporaneamente, di questo mutamento egli non indica alcuna causa, ma dice soltanto che naturalmente accade così: « ... » [B 30]: come se il mutamento fosse necessario; ma non dice la causa di tale necessità. Tuttavia egli è il solo che parli così coerentemente: non pone infatti alcune delle cose corruttibili adeccezione degli elementi. Ma il problema di cui stiamo trattando ora concerne invece il perché alcune lo siano e altre no, se derivano dagli stessi princìpi.22* 31 A 37 a. ARISTOT. metaph. B 4. 1000 a 19. G παρὰ δὲ τῶν δι' ἀποδείξεως λεγόντων δεῖ πυνθάνεσθαι διερωτῶντας τί δή ποτ' ἐκ τῶν αὐτῶν ὄντα τὰ μὲν ἀΐδια τὴν φύσιν ἐστὶ τὰ δὲ φθείρεται τῶν ὄντων. ἐπεὶ δὲ οὔτε αἰτίαν λέγουσιν οὔτε εὔλογον οὕτως ἔχειν, δῆλον ὡς οὐχ αἱ αὐταὶ ἀρχαὶ οὐδὲ αἰτίαι αὐτῶν ἂν εἶεν. καὶ γὰρ ὅνπερ οἰηθείη λέγειν ἄν τις μάλιστα ὁμολογουμένως αὑτῷ, Ἐμπεδοκλῆς, καὶ οὗτος ταὐτὸν πέπονθεν˙τίθησι μὲν γὰρ ἀρχήν τινα αἰτίαν τῆς φθορᾶς τὸ νεῖκος, δόξειε δ' ἂν οὐθὲν ἧττον καὶ τοῦτο γεννᾶν ἔξω τοῦ ἑνός˙ ἅπαντα γὰρ ἐκ τούτου τἆλλά ἐστι πλὴν ὁ θεός.

λέγει γοῦν "..." [B 21, 9-12]. καὶ χωρὶς δὲ τούτων δῆλον˙ εἰ γὰρ μὴ ἦν ἐν τοῖς πράγμασιν, ἓν ἂν ἦν ἅπαντα, ὡς φησίν˙ ὅταν γὰρ συνέλθῃ, τότε δ' "ἔσχατον ἵστατο νεῖκος" [B 36]. διὸ καὶ συμβαίνει αὐτῷ τὸν εὐδαιμονέστατον θεὸν ἧττον φρόνιμον εἶναι τῶν ἄλλων˙ οὐ γὰρ γνωρίζει ἅπαντα˙ τὸ γὰρ νεῖκος οὐκ ἔχει, ἡ δὲ γνῶσις τοῦ ὁμοίου τῷ ὁμοίῳ. ". . ." [B 109]. ἀλλ' ὅθεν δὴ ὁ λόγος, τοῦτό γε φανερόν, ὅτι συμβαίνει αὐτῷ τὸ νεῖκος μηθὲν μᾶλλον φθορᾶς ἢ τοῦ εἶναι αἴτιον˙ ὁμοίως δ' οὐδ' ἡ φιλότης τοῦ εἶναι, συνάγουσα γὰρ εἰς τὸ ἓν φθείρει τὰ ἄλλα. καὶ ἅμα δὲ αὐτῆς τῆς μεταβολῆς αἴτιον οὐθὲν λέγει ἀλλ' ἢ ὅτι οὕτως πέφυκεν˙
". . ." [B 30]

ὡς ἀναγκαῖον μὲν ὂν μεταβάλλειν˙ αἰτίαν δὲ τῆς ἀνάγκης οὐδεμίαν δηλοῖ. ἀλλ' ὅμως τοσοῦτόν γε μόνος λέγει ὁμολογουμένως˙ οὐ γὰρ τὰ μὲν φθαρτὰ τὰ δὲ ἄφθαρτα ποιεῖ τῶν ὄντων ἀλλὰ πάντα φθαρτὰ πλὴν τῶν στοιχείων. ἡ δὲ νῦν λεγομένη ἀπορία ἐστὶ διὰ τί τὰ μὲν τὰ δ' οὔ, εἴπερ ἐκ τῶν αὐτῶν ἐστίν.