68 A 135. THEOPHR. de sens. 49-83 [Dox. 513]. (49) Democrito non chiarisce, riguardo alla sensazione, se essa avvenga per opera di contrari o per opera di simili. Perché, se egli spiega il sentire con l'alterazione, parrebbe ch'egli lo facesse derivare dall'azione di cose differenti, dato che il simile non subisce alterazione dal simile; se, al contrario, spiega il sentire e in genere l'alterazione come un patire - ed è impossibile, egli dice, che cose non identiche patiscano l'una dall'altra, anzi, se sono diverse, agiscono non in quanto diverse ma in quanto c'è in esse qualcosa di comune - è evidente che spiega la sensazione col simile. Perciò su questo punto si può fare l'una e l'altra ipotesi. Poi Democrito si adopera a spiegare ciascun tipo di sensazione in particolare.
(50) Il vedere, dunque, secondo lui è prodotto dall'immagine, sulla quale egli espone una teoria sua propria: e cioè che l'immagine non si forma direttamente sulla pupilla, ma che l'aria frapposta tra l'organo della vista e l'oggetto veduto, venendo compressa per opera dell'oggetto veduto e del soggetto che vede, riceve un'impronta, giacché da ogni cosa proviene in ogni istante un certo effluvio; quest'aria poi, divenuta consistente e improntata dai diversi colori, si riflette nell'umido degli occhi, e l'elemento denso non l'accoglie, mentre l'umido la lascia penetrare. Perciò gli occhi umidi, per la capacità visiva, sono migliori di quelli asciutti, qualora la tunica esterna sia estremamente sottile e compatta, la parte interna invece estremamente spugnosa, priva di carne compatta e resistente, e piena di umore denso e grasso, e le vene nell'interno degli occhi dritte e prive di umidità, quando cioè gli occhi siano tali da poter ricevere le medesime figure atomiche che sono nelle immagini delle cose: perché ciascuno conosce meglio ciò che gli è omogeneo. (51) Ora, prima di tutto, è assurda questa formazione di impronte nell'aria; infatti ciò che riceve un'impronta deve possedere una certa compattezza e non sminuzzarsi come del resto riconosce egli stesso, col paragone che fa, dicendo esser tale l'impronta quale si otterrebbe modellando un pezzo di cera. Inoltre, le immagini nell'acqua si potrebbero formare tanto più facilmente quanto più l'acqua è densa: eppure nell'acqua densa si vede peggio, benché si dovrebbe veder meglio. E, dato che egli ammette in generale l'effluvio delle forme dei corpi, come si vede nei libri Degli idoli, a quale scopo serve la formazione delle impronte nell'aria? Perché gli idoli sono già, di per se stessi, immagini.

(52) Ma, dato che questo avvenga, che cioè l'aria venga plasmata come cera premuta e condensata, come si produce l'immagine e di qual natura è essa? Intanto è evidente che l'impronta sarà rivolta di prospetto all'oggetto veduto, com'è il proprio di tutte le impronte. Ed essendo essa tale, è impossibile che l'immagine dell'oggetto presenti il prospetto a noi, se l'impronta non gira su se stessa. Ma quel che bisognerebbe dimostrare è per qual causa e in qual modo avverrà questo capovolgimento delle impronte: perché altrimenti il vedere non è possibile. Altro punto: quando vediamo parecchi oggetti in un medesimo luogo, come mai potranno stare insieme tante impronte diverse nella medesima aria? E ancora: com'è possibile che due persone si vedano reciprocamente? Perché le impronte dovrebbero incrociarsi, essendo ciascuna di esse situata proprio di faccia alla persona da cui proviene. Questi problemi, dunque, attendono la soluzione. (53) E, oltre a ciò, perché mai ciascuno non si vede da se stesso? Giacché le impronte [che provengono da noi], come producono l'immagine negli occhi di chi ci sta vicino, dovrebbero portarla anche ai nostri stessi occhi, specialmente se l'altra persona ci sta proprio di fronte e se [per le impronte che portano le immagini] siproduce il medesimo effetto che si ha nell'eco: infatti egli dice che il suono si ripercuote anche verso quello stesso che ha parlato. Eppoi la formazione di impronte nell'aria è assurda in via generale: perché da ciò ch'egli dice viene come conseguenza necessaria che tutti i corpi produrrebbero le loro impronte nell'aria e molte di queste si confonderebbero, e ciò ci impedirebbe di vedere ed inoltre è cosa del tutto inverosimile. Ancora: nel caso, poi, che l'impronta fosse persistente, si dovrebbero vedere gli oggetti anche quando non sono né visibili né vicini e, se non proprio di notte, almeno durante il giorno. E veramente è non meno naturale che le impronte persistano di notte, quanto più l'aria è fresca; (54) ma forse l'immagine è prodotta dal sole col portare la luce in forma di 〈raggio〉 all'organo visivo, come parrebbe ch'egli intendesse dire. Poiché il dire, com'egli fa, che il sole, respingendo e percuotendo incessantemente l'aria dinanzi a sé, la condensa, è un altro assurdo, in quanto [il calore del sole] è atto piuttosto a rarefarla. Altro assurdo ancora è il rendere partecipi del senso della vista non soltanto gli occhi ma anche tutto il resto del corpo: infatti dice che l'occhio deve possedere un certo vacuo e una certa umidità appunto per questo, per ricevere meglio le immagini e trasmetterle a tutto il resto del corpo. Ed è pure contraddittorio il dire che l'occhio vede soprattutto le cose omogenee ad esso eppoi far derivare l'immagine da cose di diversi colori, come se dunque da cose simili non potessero venir prodotte immagini. Come poi si abbiano le immagini delle grandezze e delle distanze, egli non riesce a spiegare, per quanto abbia tentato. (55) Per ciò che riguarda la vista, dunque, Democrito volle spiegare in modo originale varie questioni, ma è molto più quello ch'egli ha lasciato da indagare.
Quanto all'udito, egli lo spiega in modo suppergiù uguale agli altri. L'aria che va a penetrare nel vuoto produce un movimento, ma, benché penetri uniformemente in tutto il corpo, lo produce soprattutto e in grado molto più alto entro gli orecchi, perché attraversa uno spazio vuoto molto più ampio e non vi rimane ferma minimamente. E questa è la ragione per cui, mentre nel resto del corpo non c'è alcuna sensazione [di suono], c'è in quella parte soltanto [nell'orecchio]. Quando l'aria è giunta nell'interno, per la sua velocità si diffonde: ed il suono è appunto l'effetto di aria che si comprime e penetra con forza. Egli spiega dunque col tatto anche la sensazione che si ha nell'interno, come quella che si ha all'esterno. (56) L'udito poi è acutissimo, allorché la tunica esterna è densa, le piccole vene sono vuote ed il più possibile prive di liquido e ben traforate anche in tutto il resto del nostro corpo, oltre che nel capo e nelle orecchie; e occorre pure che le ossa siano compatte, il cervello ben temperato e che sia asciutto il più possibile ciò che lo circonda; allora il suono penetra tutto insieme, dal momento che penetra in un vacuo ampio, senza umidità e ben traforato, e così si diffonde velocemente e uniformemente per tutto il corpo senza riversarsi fuori. (57) Democrito dunque non differisce dagli altri quanto al determinare [la natura del suono] senza nessuna chiarezza. Quello che c'è di suo personale e di assurdo nella teoria è che il suono penetri in tutto il corpo, che cioè, quando penetra attraverso l'udito, si diffonda per tutto il corpo, come se la sensazione di suono potesse averla l'intero corpo e non l'orecchio soltanto. Giacché, se anche il corpo partecipa di qualche cosa dell'impressione che giunge all'udito, non per questo si può dire che oda:54*infatti il corpo è similmente soggetto a qualche modificazione in tutti i casi, e non soltanto per quanto riguarda i sensi, ma anche per quanto riguarda l'anima. In quanto alla vista e all'udito, dunque, egli dà queste spiegazioni, mentre concepisce le altre sensazioni suppergiù come la maggior parte degli altri.
(58) Quanto al pensiero, egli ha detto solamente che si produce quando c'è equilibrio nell'interna mescolanza dell'anima; quando invece in uno si ha il prevalere o degli elementi caldi o dei freddi, allora quegli sragiona: perciò Democrito dice che gli antichi bene spiegarono questo fatto dicendo che è un 'altro pensare'. E così si vede chiaro che egli fa derivare il pensiero dalla mescolanza [degli elementi] del corpo, ciò che forse è anche logico per lui, pel quale l'anima è corporea. Pressappoco queste e altrettali, dunque, sono le opinioni che si trovano espresse dagli antichi intorno alle sensazioni e al pensiero.
(59) Quanto agli oggetti sensibili, l'indagine sulla loro natura e sulle qualità proprie a ciascuno è tralasciata dagli altri filosofi. Negli oggetti che cadono sotto il tatto, essi considerano il pesante e il leggero, il caldo e il freddo, dicendo, per esempio, che è caldo ciò che è dilatato e sottile, freddo ciò ch'è compresso e grosso; ed appunto così Anassagora distingue l'aria dall'etere. Pressappoco alle stesse cause riconducono anche il pesante e il leggero, aggiungendovi però il movimento verso l'alto o verso il basso. Inoltre, quanto al suono, dicono che è un movimento dell'aria; e, quanto all'odore, che è un effluvio. Empedocle parlò anche dei colori, dicendo che il bianco è il colore proprio del fuoco e il nero dell'acqua [cfr. 31 A 69 a; B 94]; gli altri invece si limitano a dire questo, che il bianco e il nero sono i princìpi dei colori e che tutti gli altri colori derivano dalla mescolanza di questi due; ed infatti Anassagora ne parlò in modo superficiale. (60) Democrito e Platone per lo più sono d'accordo, poiché hanno definito ciascun senso separatamente, con la differenza che Platone non nega la realtà obbiettiva alle qualità sensibili [cfr. Tim. 50
A sgg.], mentre Democrito le considera tutte modificazioni della nostra sensibilità. Quale dei due abbia dato la spiegazione conforme al vero, è cosa che non richiede discorsi. Proviamoci invece ad illustrare fino a qual punto ciascuno dei due si sia spinto avanti nella ricerca e in qual modo abbia determinato le qualità sensibili: premettiamo però qual è l'indirizzo generale della loro indagine. Democrito non si vale di un identico principio per spiegare tutte le qualità sensibili, bensì ne spiega alcune con le grandezze, altre con le forme, altre con l'ordine e con la posizione. Platone, invece, si può dire che riporta tutte le qualità sensibili alle impressioni esterne e al senso. Cosicché parrebbe che ciascuno dei due contraddicesse poi la sua propria ipotesi. (61) Infatti quegli che considera le qualità come impressioni sensibili viene poi a determinarne l'esistenza obbiettiva; l'altro, che le considera obbiettive e derivanti dalle sostanze, le riconduce ad impressioni del senso.
Il pesante e il leggero, dunque, sono definiti da Democrito mediante la grandezza: se infatti tutte le singole sostanze potessero venir separate, egli dice che, per quanto fossero differenti di forma, avrebbero per natura il peso proporzionale alla grandezza. Invece nei composti è più leggero quello che contiene più vuoto, più pesante quello che ne contiene di meno: così egli afferma in vari luoghi. (62) Altrove, invece, dice semplicemente che leggero è ciò che è sottile. E analogamente procede nello spiegare il duro e il molle: infatti duro è ciò che è denso, molle ciò che è raro, e il più e il meno [nel duro o nel molle] e tutte le possibili variazioni si spiegano in conformità di queste premesse. C'è però, se si confronta ciò che è duro o molle con ciò che è pesante o leggero, una certa differenza anche in rapporto alla posizione e alla interna distribuzione dei vuoti. E' perciò che il ferro è più duro mentre il piombo è più pesante: difatti il ferro ha una composizione irregolare e contiene qua e là frequenti e anche notevoli vuoti, mentre in certe parti è fortemente compatto, in generale però ha in sé più vuoto che non il piombo. Il piombo, che contiene meno vuoti, ha composizione regolare e uniforme in tutte le sue parti: per la qual cosa esso è bensì più pesante, ma più molle, del ferro. (63) In tal maniera, dunque, egli spiega il pesante e il leggero, il duro e il molle. Delle altre qualità sensibili nessuna ha realtà obbiettiva, ma tutte sono impressioni da cui è modificato il senso, dal quale proviene poi la rappresentazione. Così non hanno realtà obbiettiva né il freddo né il caldo, ma vi è soltanto il cangiamento di forma, il quale produce anche la nostra modificazione: infatti ciò che costituisce una massa compatta ha la forza di farsi avvertire da ciascuno, mentre ciò che è disperso in un vasto spazio non è più percettibile. La prova che le qualità sensibili non hanno esistenza obbiettiva è nel fatto che una stessa qualità non appare uguale a tutti gli esseri senzienti, ma ciò che per noi è dolce è per altri amaro, per altri acido, per altri agro, per altri ancora acre, e così via. (64) Inoltre i senzienti subiscono cangiamenti nell'interna mescolanza [dell'anima], a seconda delle impressioni che ricevono e dell'età; e anche da ciò risulta evidente che la disposizione [del senziente] è causa della rappresentazione. Egli ritiene, dunque, che le qualità sensibili si debbano concepire in generale in questo modo. Tuttavia egli attribuisce, come le altre, anche queste55* qualità alle forme, tranne che non determina le forme per tutti quanti gli oggetti sensibili, ma a preferenza per i sapori e per i colori; e, tra queste, con maggior precisione definisce quelle dei sapori, riportando all'uomo la rappresentazione di essi.
(65) Egli dice dunque che l'acido o acuto è il sapore delle forme atomiche angolose e molto sinuose, piccole e sottili. Queste, per la loro penetrabilità, s'insinuano rapidamente e dappertutto, e, come sono aspre e angolose, determinano una contrazione e uno stringimento per cui il corpo, producendo dei vacui nel proprio interno, viene anche a riscaldarsi: giacché una cosa tanto più si riscalda quanto maggiore è il vacuo ch'essa contiene. Il dolce è composto di particelle tondeggianti e non troppo piccole; ond'esse si diffondono completamente per il corpo e s'inoltrano dappertutto non violentemente e neppure rapidamente; ma vanno a turbare gli altri sapori allorché, penetrando attraverso le altre forme, le spingono fuor di posto e le inumidiscono: e queste allora, inumidite e smosse dal loro posto, colano tutte insieme verso il ventre, giacché questo offre un passaggio agevolissimo perché ha dentro di sé moltissimo vuoto.

(66) L'acre risulta da figure atomiche grandi, molto angolose e senza quasi nessuna rotondità; queste figure, così, quando entrano nei corpi, ostruiscono le piccole vene riempiendole e impediscono loro di scolar giù; e in tal modo arrestano anche il flusso del ventre. L'amaro risulta da atomi piccoli lisci e rotondi, e presenta un contorno rotondeggiante dotato anche di sinuosità: per cui è vischioso e appiccicoso. Il salato è quello che risulta da atomi grandi e non rotondi, ma in piccola parte scaleni, 〈per la maggior parte invece non scaleni〉, per cui non sono neppure molto sinuosi (con scaleni egli vuol significare quelli che hanno attitudine ad impigliarsi mutuamente, cioè a formare un complesso unico); sono atomi grandi, perché il salato resta alla superficie, mentre, se fossero piccoli, una volta sottoposti agli urti degli atomi del corpo in cui sono entrati, si mescolerebbero con tutto il corpo; non sono rotondi, perché ciò che è salato è scabro, mentre ciò ch'è rotondo è liscio; non scaleni, perché non s'impigliano tra loro, e perciò il sale è friabile. (67) L'agro è [l'atomo] piccolo, ora rotondo ora angoloso, ma senza tortuosità. Infatti l'agro riscalda per la sua asperità, essendo molto angoloso, e si diffonde per la sua piccolezza e per la rotondità o angolosità di forma: perché ciò che è angoloso ha queste attitudini. Similmente egli spiega anche le singole proprietà degli altri sapori, riconducendole alle figure atomiche. Di tutte queste figure, però, nessuna si trova da sola [in ogni singolo sapore] e non mescolata con le altre, ma ce ne sono molte a determinare ciascun sapore: il medesimo sapore contiene del liscio e dell'aspro, del rotondo e dell'acuto e viadicendo. Quella figura atomica che si trova nel composto in quantità prevalente ha la maggior forza nel determinare la sensazione e la qualità sensibile, anche però secondo la disposizione del corpo in cui entra: perché [per questo rispetto] si hanno differenze non lievi e talvolta una sostanza può produrre con la medesima forma atomica effetti contrari, mentre forme contrarie possono produrre il medesimo effetto. (68) Queste sono le spiegazioni ch'egli ha dato circa i sapori.
Ma quello che potrebbe parere strano è, prima di tutto, ch'egli non spieghi nella medesima maniera le cause di tutte le qualità sensibili, ma per il pesante e il leggero, il molle e il duro, 〈ricorra〉 al grande e al piccolo, al raro e al denso, per il caldo e il freddo invece, e per altre qualità simili, alle figure atomiche. Né è meno singolare che del pesante e del leggero in sé, del duro e del molle in sé, egli affermi l'esistenza obbiettiva (infatti il grande e il piccolo, il denso e il raro non sono relativi ad altro), ed invece consideri il caldo e il freddo e le altre qualità simili come relative al senso, e ciò malgrado ch'egli ripeta più volte che, per esempio, la figura atomica propria del caldo è quella sferica. (69). Insomma la più grande contraddizione e quella che è comune a tutta questa considerazione delle qualità sensibili consiste nel dir contemporaneamente, da un lato, che le qualità sono modificazioni del senso e, dall'altro, che dipendono dalle figure atomiche; eppoi dire che la stessa cosa appare amara ad uno, dolce a un altro, ad altri diversamente ancora: perché non è possibile che la figura atomica sia un'impressione nostra, né che la medesima figura sia per alcuni sferica e per altri diversamente (eppure ciò sarà ben necessario, concesso che essa sia per gli uni dolce e per gli altri amara), né che le figure atomiche cangino di forma secondo la disposizione del nostro corpo. Invece la figura è assolutamente reale in sé, mentre il dolce e in generale ogni qualità sensibile sono relativi ad altro ed esistono in altro56*, a quanto egli dice. Ed è assurdo il ritenere che quanti hanno la sensazione dei medesimi oggetti ne ricevano tutti la medesima impressione e che tale impressione provi la verità degli oggetti e tutto ciò, pur avendo detto, poco prima, che le cose appaiono differenti a persone di differente disposizione ed inoltre che non è dato ad uno più che a un altro di raggiungere la verità. (70) Assurdo perché, logicamente, chi è migliore la raggiungerà meglio di chi è peggiore, chi è sano meglio di chi è ammalato; il che è assai più conforme a natura. E ancora: se non hanno realtà obbiettiva le qualità sensibili per il fatto che non appaiono a tutti identiche, è evidente che non avranno realtà obbiettiva neppure gli animali e tutti gli altri corpi: perché neppure su questi abbiamo tutti la medesima opinione. Eppure, se anche il medesimo oggetto non produce in tutti la medesima sensazione di dolce o di amaro, è ben certo che tutti concepiscono ad un modo la natura del dolce e quella dell'amaro. E questo parrebbe confermarlo egli stesso. Giacché, come potrebbe quello che per noi è amaro sembrare ad altri dolce o acre, se non ci fosse una ben determinata natura propria di questi sapori? (71) Ed egli lo rende anche più evidente là dove dice che ciascuna [di queste qualità sensibili] si produce ed esiste veramente e, in particolare per l'amaro, che ha l'attributo della percettibilità. Sicché, per questa ragione, pare ch'egli si contraddica col non riconoscere una realtà alle qualità sensibili; e, oltre a ciò, come si è detto anche più sopra, pare contraddirsi quando determina bensì la figura propria della sostanza 〈amara〉 come pure delle altre e insieme nega loro realtà obbiettiva. Infatti, o nessun oggetto percepito ha realtà obbiettiva o l'avranno anche le qualità sensibili, giacché, in quanto cause [del sentire], oggetti e qualità operano nel medesimo modo. Ancora: il caldo e il freddo, che essi pongono come princìpi, è da credere che abbiano una qualche realtà; se poi l'hanno questi, l'avranno anche le altre qualità sensibili. Intanto, al duro e al molle, al pesante e al leggero egli riconosce una certa sostanzialità, mentre sembrava considerarli relativi a noi non meno delle altre qualità sensibili; e non la riconosce invece né al caldo né al freddo né ad alcuna delle altre qualità. Eppure, dato che egli spiega il pesante e il leggero mediante le grandezze, ne viene di necessità che tutti i corpi semplici abbiano la stessa tendenza al movimento, cosicché sarebbero tutti di una sola materia e della medesima natura. (72) Ma intorno a ciò egli sembra aver seguito quelli che fanno dipendere direttamente il pensiero dalle modificazioni fisiche, opinione questa che è antichissima. Infatti tutti gli antichi, sia poeti che filosofi, spiegano il pensiero in dipendenza della nostra disposizione. A ciascuno dei sapori, poi, egli attribuisce una figura atomica, cercando di stabilirla con una certa somiglianza tra essa e la potenza ch'essa manifesta nella sensazione; ma la figura dovrebb'essere definita non soltanto in conformità delle caratteristiche dei sapori, bensì anche di quelle degli organi dei sensi, dato principalmente che le sensazioni sono modificazioni dei nostri sensi. Perché non tutte le forme sferiche hanno la medesima potenza e neppure le altre; di conseguenza si sarebbe dovuto definirle anche 〈secondo la〉 sostanza, dire se essa è composta di figure simili o differenti, dire in qual modo si produce quella modificazione in cui consiste la sensazione, ed inoltre spiegare ugualmente tutte le sensazioni dipendenti dal tatto e non soltanto le sensazioni di gusto. Insomma, anche tutte queste altre sensazioni o hanno qualcosa che le differenzia dai sapori, e bisognava determinare questa differenza, oppure si potevano spiegare nello stesso modo, ed egli le ha trascurate.
(73) Quanto ai colori [cfr. 67 A 29], egli ammette quattro colori semplici. Il bianco, pertanto, è il liscio. Infatti tutto ciò che non è aspro e non getta ombra ed è facilmente penetrabile è anche brillante. Tutto ciò che è brillante, poi, deve offrire passaggi rettilinei ed essere trasparente. Delle sostanze bianche, quelle che sono dure sono composte di figure atomiche del genere di quelle che compongono la superficie interna delle conchiglie: come quelle, infatti, sono senza ombra, son chiare, e hanno pori rettilinei; quelle invece che sono friabili e si sbriciolano facilmente risultano da figure atomiche rotonde, in posizione obliqua l'una rispetto all'altra e collegate a coppie, ed hanno l'intera disposizione interna uniforme al massimo grado. Così ordinate nell'interno, sono friabili perché il contatto avviene su una piccola superficie; si sbriciolano facilmente, perché le loro particelle sono disposte in modo uniforme; sono senz'ombra, perché lisce e piatte; e sono più bianche tra di esse
57* quelle in cui le figure atomiche sopra descritte sono più regolari e meno mescolate e dove l'ordine e la posizione di tali figure è più conforme a quello summentovato. (74) Il bianco, dunque, risulta da figure di tal genere. Il nero, da quelle di opposta natura, cioè aspre, tortuose, e fra loro differenti: poiché in tal modo gettano ombra e hanno i pori non rettilinei e non facilmente penetrabili. Anche gli effluvi sono lenti e disordinati; e ne viene negli effluvi una differenza di qualità in rapporto alla sensazione, la quale sarà diversa a seconda dell'immissione d'aria [nei pori del senziente]. (75) Il rosso deriva dalle medesime figure donde deriva il caldo, soltanto più grandi; perché anche nel caso che siano più grandi i composti [corpi], pur essendo le particelle tutte uniformi, si ha un rosso molto più vivo. Il segno evidente che il rosso deriva da figure di tal genere è in ciò: noi, quando ci riscaldiamo, diventiamo rossi e così pure gli altri corpi infuocati, finché abbiano alcunché58* d'infuocato. Più rosse sono le cose composte di figure atomiche grandi, come ad esempio la fiamma e il carbone delle legna verdi più di quelli delle legna secche. Così pure dicasi del ferro e degli altri corpi infuocati: i più brillanti sono quelli che contengono un fuoco più sottile e in grandissima quantità, mentre più rossi sono quelli che contengono un fuoco più grosso e in quantità minore. E questa è la ragione per cui i corpi più rossi sono anche meno caldi: perché caldo è il sottile. Il verde, poi, consta di solido e di vuoto ed è come un miscuglio dell'uno e dell'altro; e secondo l'ordine e la disposizione il colore che ne risulta. (76) I colori semplici, dunque, hanno bisogno di queste figure atomiche: e ciascun colore sarà tanto più puro quanto più risulterà da figure non mescolate. Gli altri colori59* dipendono dalle combinazioni di questi. Così ad esempio il colore dell'oro, quello del bronzo e tutti quelli analoghi, dalla combinazione del bianco col rosso; infatti traggono il brillante dal bianco, il rossastro dal rosso, giacché il rosso nella mescolanza va a cadere proprio nei vuoti del bianco. Se poi a questi colori si aggiunge il verde, si ottiene un colore bellissimo, ma bisogna che le aggiunte di verde siano piccole: perché grandi non è possibile, dato il modo come sono combinati il bianco e il rosso. E i colori composti riusciranno differenti a seconda che si piglierà più o meno dei semplici. Il purpureo deriva dal bianco, dal nero e dal rosso mescolati, ma il rosso ha la parte maggiore nel composto, piccola parte il nero, e il bianco vi sta in proporzione media: anche perciò è gradevole la sensazione ch'esso produce. Che nel purpureo vi siano il nero e il rosso, è manifesto alla vista; che vi sia il bianco, lo provano lo splendore e la trasparenza, giacché queste sono le qualità costitutive del bianco. Il blu di guado deriva dal nero intenso e dal verde, però con maggior quantità di nero: il verdeporro60* dalla porpora e dal blu di guado, o dal verde e dal purpureo: infatti lo zolfo è di questa natura e partecipa di una certa, lucentezza. L'indaco deriva dal blu di guado e dal rosso-fuoco, però da figure atomiche rotondeggianti e aghiformi, affinché nel nero vi sia la lucentezza. (78) Il verde-noce deriva dal verde e dall'indaco; se poi si mescolano il verde 〈e il bianco〉 si ottiene il color fuoco, perché ciò che è privo di ombra elimina anche la presenza del colore nero. E in generale anche il rosso mescolato col bianco rende puro e privo di nero il verde: ed è per questo che i frutti degli alberi da principio son verdi, prima che sentano il calore e divengano maturi. In complesso, dunque, egli fa menzione solo di questi colori, ma ritiene che i colori e i sapori siano infiniti, date le mescolanze che se ne possono fare, togliendo o aggiungendo dell'uno o dell'altro, e degli uni mescolandone più, degli altri meno: perché non ne risulteranno mai due colori perfettamente simili l'uno all'altro.
(79) Innanzi tutto, però, incontra qualche difficoltà l'ammettere parecchi princìpi; e infatti gli altri [fisici] ammettono solo il bianco e il nero, ritenendo colori semplici soltanto questi. Ed inoltre incontra difficoltà il non ammettere un'unica forma atomica per tutti i corpi bianchi, ma una pei corpi duri e un'altra per quelli friabili. Perché non è davvero naturale che vi sia un'altra causa [per il colore] nei corpi che sono differenti al tatto; e, quand'anche, la causa della differenza non sarebbe la figura atomica, bensì piuttosto la posizione. Infatti è possibile che anche le figure atomiche rotondeggianti e in generale tutte le figure si facciano ombra tra di loro. Una prova: e cioè che lo stesso Democrito ne è convinto, per quei corpi lisci che appaiono neri, poiché dice che appaiono tali per la loro coesione e per l'ordine delle parti, in quanto hanno la medesima coesione e il medesimo ordinamento del nero; e, viceversa, per quei corpi scabri che appaiono bianchi: dice infatti che gli apparentemente bianchi derivano da figure atomiche grandi e con raggruppamenti non rotondeggianti ma a scalini, sì che le forme degli atomi costituiscono una linea spezzata come i ripari o i terrapieni innalzati a ridosso delle mura, perché un corpo di tal fatta non produce ombra o non ostacola la lucentezza. (80) E inoltre come spiega, e in base a quali figure atomiche,
61* il fatto che il bianco di certi corpi può diventare nero, qualora essi [corpi] siano disposti in modo tale da gettare ombra? Insomma, pare che [in tal modo] egli spieghi piuttosto la natura del diafano e del rilucente che non quella del bianco. E appunto caratteristica del diafano il possedere la trasparenza e il non avere i pori a disposizione alternata; ma nel genere del diafano quante sono le sostanze bianche? Ancora: che i pori delle sostanze bianche siano diritti e quelli delle sostanze nere siano a disposizione alternata, è una supposizione che vale nel caso che una qualche materia debba penetrarvi. Ma egli spiega il vedere mediante l'effluvio e l'immagine che si produce nell'organo visivo; e allora quale importanza avrà che i pori siano disposti tutti in maniera uniforme o a disposizione alterna? Né è facile ammettere che l'effluvio possa, in un modo qualsiasi, nascere dal vuoto: per cui resta da determinare la causa di ciò; e pare difatti che egli faccia derivare il bianco dalla luce o da qualche altra cosa; [e perciò adduce anche la densità dell'aria come causa per cui certe sostanze appaiono nere]62* (81) Neanche è facile da comprendere come egli spieghi il nero: perché l'ombra è qualcosa di nero e costituisce un ostacolo alla visione del bianco, e perciò appunto il bianco è per natura il primo colore. Ma egli attribuisce la causa del nero tutt'insieme a parecchie cose, non soltanto al sovrapporsi dell'ombra, ma anche alla densità dell'aria, al penetrare dell'effluvio, al turbamento dell'occhio. Ma se ciò accada per mancanza di trasparenza o dipenda da altro e da quale altra causa, egli non chiarisce.
(82) E' anche assurdo il non attribuire una forma propria al verde, considerandolo costituito soltanto di solido e di vuoto, giacché ciò veramente è comune a tutti i corpi, di qualunque specie siano le loro figure atomiche; e bisognava invece, come agli altri colori, attribuirgli una caratteristica particolare. E se questo colore è contrario al rosso come il nero è contrario al bianco, dovrebbe avere la forma contraria a quella del rosso; se poi non è contrario al rosso, ci sarebbe da meravigliarsi appunto di questo, che Democrito non consideri i princìpi come contrari: poiché tutti li ritengono tali. E soprattutto bisognava esaminare con attenzione quali dei colori sono semplici, e perché gli uni sono composti, gli altri non composti: poiché la maggior difficoltà sta nel determinare i princìpi. Ma una tale indagine era, probabilmente, difficile. Poiché, anche i sapori, meglio di tutti saprebbe spiegarli chi riuscisse a determinare i sapori semplici. Quanto all'odorato egli trascurò di determinarne le peculiarità, limitandosi all'affermazione che l'odore è prodotto dal sottile che emana dai corpi pesanti. Ma egli poi non aggiunge qual sia la natura dell'essere che subisce queste azioni dall'esterno - ciò che forse era il punto principale.
(83) Democrito dunque ha, in questo modo, tralasciato parecchie questioni.

68 A 135. THEOPHR. de sens. 49-83 (D. 513) (49) Δ. δὲ περὶ μὲν αἰσθήσεως οὐ διορίζει, πότερα τοῖς ἐναντίοις ἢ τοῖς ὁμοίοις ἐστίν. εἰ μὲν γὰρ 〈τῶι〉 ἀλλοιοῦσθαι ποιεῖ τὸ αἰσθάνεσθαι, δόξειεν ἂν τοῖς διαφόροις˙ οὐ γὰρ ἀλλοιοῦται τὸ ὅμοιον ὑπὸ τοῦ ὁμοίου˙ πάλιν δ' 〈εἰ〉 τὸ μὲν αἰσθάνεσθαι καὶ ἁπλῶς ἀλλοιοῦσθαι 〈τῶι〉 πάσχειν, [II 114. 25 App.] ἀδύνατον δέ, φησί, τὰ μὴ ταὐτὰ πάσχειν, ἀλλὰ κἂν ἕτερα ὄντα ποιῆι οὐχ 〈ἧι〉 ἕτερα ἀλλ' ἧι ταὐτόν τι ὑπάρχει, τοῖς ὁμοίοις. διὸ περὶ μὲν τούτων ἀμφοτέρως ἔστιν ὑπολαβεῖν. περὶ ἑκάστης δ' ἤδη τούτων ἐν μέρει πειρᾶται λέγειν. (50) ὁρᾶν μὲν οὖν ποιεῖ τῆι ἐμφάσει˙ ταύτην δὲ ἰδίως λέγει˙ τὴν γὰρ ἔμφασιν οὐκ εὐθὺς ἐν τῆι κόρηι γίνεσθαι, ἀλλὰ τὸν ἀέρα τὸν μεταξὺ τῆς ὄψεως καὶ τοῦ ὁρωμένου τυποῦσθαι συστελλόμενον ὑπὸ τοῦ [II 114. 30 App.] ὁρωμένου καὶ τοῦ ὁρῶντος˙ ἅπαντος γὰρ ἀεὶ γίνεσθαί τινα ἀπορροήν˙ ἔπειτα τοῦτον στερεὸν ὄντα καὶ ἀλλόχρων ἐμφαίνεσθαι τοῖς ὄμμασιν ὑγροῖς˙ καὶ τὸ μὲν πυκνὸν οὐ δέχεσθαι τὸ δ' ὑγρὸν διἱέναι. διὸ καὶ τοὺς ὑγροὺς τῶν σκληρῶν ὀφθαλμῶν ἀμείνους εἶναι πρὸς τὸ ὁρᾶν, εἰ ὁ μὲν ἔξω χιτὼν ὡς λεπτότατος καὶ πυκνότατος εἴη, τὰ δ' ἐντὸς ὡς [II 114. 35 App.] μάλιστα σομφὰ καὶ κενὰ πυκνῆς καὶ ἰσχυρᾶς σαρκός, ἔτι δὲ ἰκμάδος παχείας τε καὶ [II 115. 1 App.] λιπαρᾶς 〈μεστά〉, καὶ αἱ φλέβες 〈αἱ〉 κατὰ τοὺς ὀφθαλμοὺς εὐθεῖαι καὶ ἄνικμοι, ὡς ὁμοσχημονεῖν τοῖς ἀποτυπουμένοις˙ τὰ γὰρ ὁμόφυλα μάλιστα ἕκαστον γνωρίζειν. (51) πρῶτον μὲν οὖν ἄτοπος ἡ ἀποτύπωσις ἡ ἐν τῶι ἀέρι. δεῖ γὰρ ἔχειν πυκνότητα καὶ μὴ θρύπτεσθαι τὸ τυπούμενον, ὥσπερ καὶ αὐτὸς λέγει παραβάλλων [II 115. 5 App.] τοιαύτην εἶναι τὴν ἐντύπωσιν οἷον εἰ ἐκμάξειας εἰς κηρόν. ἔπειτα μᾶλλον ἐν ὕδατι τυποῦσθαι δυνατὸν ὅσωι πυκνότερον˙ ἧττον δὲ ὁρᾶται, καίτοι προσῆκε μᾶλλον. ὅλως δὲ ἀπορροὴν ποιοῦντα τῆς μορφῆς ὥσπερ ἐν τοῖς περὶ τῶν εἰδῶν τί δεῖ τὴν ἀποτύπωσιν ποιεῖν; αὐτὰ γὰρ ἐμφαίνεται τὰ εἴδωλα. (52) εἰ δὲ δὴ τοῦτο συμβαίνει καὶ ὁ ἀὴρ ἀπομάττεται καθάπερ κηρὸς ὠθούμενος καὶ πυκνούμενος, [II 115. 10 App.] πῶς καὶ ποία τις ἡ ἔμφασις γίνεται; δῆλον γὰρ ὡς ἐπὶ προσώπου 〈ὁ〉 τύπος ἔσται τῶι ὁρωμένωι καθάπερ ἐν τοῖς ἄλλοις. τοιούτου δ' ὄντος ἀδύνατον ἐξ ἐναντίας ἔμφασιν γίνεσθαι μὴ στραφέντος τοῦ τύπου. τοῦτο δ' ὑπὸ τίνος ἔσται καὶ πῶς δεικτέον˙ οὐχ οἷόν τε γὰρ ἄλλως γίνεσθαι τὸ ὁρᾶν. ἔπειτα ὅταν ὁρᾶται πλείονα κατὰ τὸν αὐτὸν τόπον, πῶς ἐν τῶι αὐτῶι ἀέρι πλείους ἔσονται τύποι; [II 115. 15 App.] καὶ πάλιν πῶς ἀλλήλους ὁρᾶν ἐνδέχεται; τοὺς γὰρ τύπους ἀνάγκη συμβάλλειν ἑαυτοῖς, ἑκάτερον ἀντιπρόσωπον ὄντα ἀφ' ὧν ἐστιν. ὥστε τοῦτο ζήτησιν ἔχει. (53) καὶ πρὸς τούτωι διὰ τί ποτε ἕκαστος αὐτὸς αὑτὸν οὐχ ὁρᾶι; καθάπερ γὰρ τοῖς τῶν πέλας ὄμμασιν οἱ τύποι καὶ τοῖς ἑαυτῶν ἐμφαίνοιντ' ἄν, ἄλλως τε καὶ εἰ εὐθὺς ἀντιπρόσωποι κεῖνται καὶ ταὐτὸ συμβαίνει πάθος ὥσπερ ἐπὶ τῆς ἠχοῦς. [II 115. 20 App.] ἀνακλᾶσθαι γάρ φησι καὶ πρὸς αὐτὸν τὸν φθεγξάμενον τὴν φωνήν. ὅλως δὲ ἄτοπος ἡ τοῦ ἀέρος τύπωσις. ἀνάγκη γὰρ ἐξ ὧν λέγει πάντα ἐναποτυποῦσθαι τὰ σώματα καὶ πολλὰ ἐναλλάττειν, ὃ καὶ πρὸς τὴν ὄψιν ἐμπόδιον ἂν εἴη καὶ ἄλλως οὐκ εὔλογον. ἔτι δὲ εἴπερ ἡ τύπωσις διαμένει, καὶ μὴ φανερῶν [ὄντων] μηδὲ πλησίον ὄντων τῶν σωμάτων ἐχρῆν ὁρᾶν εἰ καὶ μὴ νύκτωρ, ἀλλὰ μεθ' ἡμέραν. [II 115. 25 App.] καίτοι τούς γε τύπους οὐχ ἧττον εἰκὸς διαμένειν νυκτός, ὅσωι ἐμψυχότερος ὁ ἀήρ˙ (54) ἀλλ' ἴσως τὴν ἔμφασιν ὁ ἥλιος ποιεῖ [καὶ] τὸ φῶς ὥσπερ 〈ἀκτῖνα〉 ἐπιφέρων ἐπὶ τὴν ὄψιν, καθάπερ ἔοικε βούλεσθαι λέγειν. ἐπεὶ τό γε τὸν ἥλιον ἀπωθοῦντα ἀφ' ἑαυτοῦ καὶ ἀποπληττόμενον πυκνοῦν τὸν ἀέρα, καθάπερ φησίν, [II 116. 1] ἄτοπον˙ διακρίνειν γὰρ πέφυκε μᾶλλον. ἄτοπον δὲ καὶ τὸ μὴ μόνον τοῖς ὄμμασιν, ἀλλὰ καὶ τῶι ἄλλωι σώματι μεταδιδόναι τῆς αἰσθήσεως. φησὶ γὰρ διὰ τοῦτο κενότητα καὶ ὑγρότητα ἔχειν δεῖν τὸν ὀφθαλμόν, ἵν' ἐπὶ πλέον δέχηται καὶ τῶι ἄλλωι σώματι παραδιδῶι. ἄλογον δὲ καὶ τὸ μάλιστα μὲν ὁρᾶν φάναι τὰ ὁμόφυλα, τὴν [II 116. 5 App.] δὲ ἔμφασιν ποιεῖν τοῖς ἀλλόχρωσιν ὡς οὐκ ἐμφαινομένων τῶν ὁμοίων. τὰ δὲ μεγέθη καὶ τὰ διαστήματα πῶς ἐμφαίνεται, καίπερ ἐπιχειρήσας λέγειν οὐκ ἀποδίδωσιν. (55) περὶ μὲν οὖν ὄψεως ἰδίως ἔνια βουλόμενος λέγειν πλείω παραδίδωσι ζήτησιν.
τὴν δ' ἀκοὴν παραπλησίως ποιεῖ τοῖς ἄλλοις. εἰς γὰρ τὸ κενὸν ἐμπίπτοντα
[II 116. 10 App.] τὸν ἀέρα κίνησιν ἐμποιεῖν, πλὴν ὅτι κατὰ πᾶν μὲν ὁμοίως τὸ σῶμα εἰσιέναι, μάλιστα δὲ καὶ πλεῖστον διὰ τῶν ὤτων, ὅτι διὰ πλείστου τε κενοῦ διέρχεται καὶ ἥκιστα διαμίμνει. διὸ καὶ κατὰ μὲν τὸ ἄλλο σῶμα οὐκ αἰσθάνεσθαι, ταύτηι δὲ μόνον. ὅταν δὲ ἐντὸς γένηται, σκίδνασθαι διὰ τὸ τάχος˙ τὴν γὰρ φωνὴν εἶναι πυκνουμένου τοῦ ἀέρος καὶ μετὰ βίας εἰσιόντος. ὥσπερ οὖν ἐκτὸς ποιεῖ τῆι ἁφῆι [II 116. 15 App.] τὴν αἴσθησιν, οὕτω καὶ ἐντός. (56) ὀξύτατον δ' ἀκούειν, εἰ ὁ μὲν ἔξω χιτὼν εἴη πυκνός, τὰ δὲ φλεβία κενὰ καὶ ὡς μάλιστα ἄνικμα καὶ εὔτρητα κατά τε τὸ ἄλλο σῶμα καὶ τὴν κεφαλὴν καὶ τὰς ἀκοάς, ἔτι δὲ τὰ ὀστᾶ πυκνὰ καὶ ὁ ἐγκέφαλος εὔκρατος καὶ τὸ περὶ αὐτὸν ὡς ξηρότατον˙ ἀθρόον γὰρ ἂν οὕτως εἰσιέναι τὴν φωνὴν ἅτε διὰ πολλοῦ κενοῦ καὶ ἀνίκμου καὶ εὐτρήτου εἰσιοῦσαν, καὶ ταχὺ [II 116. 20 App.] σκίδνασθαι καὶ ὁμαλῶς κατὰ τὸ σῶμα καὶ οὐ διεκπίπτειν ἔξω. (57) τὸ μὲν οὖν ἀσαφῶς ἀφορίζειν ὁμοίως ἔχει τοῖς ἄλλοις. ἄτοπον δὲ καὶ ἴδιον 〈τὸ〉 κατὰ πᾶν τὸ σῶμα τὸν ψόφον εἰσιέναι, καὶ ὅταν εἰσέλθηι διὰ τῆς ἀκοῆς διαχεῖσθαι κατὰ πᾶν, ὥσπερ οὐ ταῖς ἀκοαῖς, ἀλλ' ὅλωι τῶι σώματι τὴν αἴσθησιν οὖσαν. οὐ γὰρ κἂν συμπάσχηι τι τῆι ἀκοῆι, διὰ τοῦτο καὶ αἰσθάνεται. πάσαις γὰρ τοῦτό [II 116. 25 App.] γε ὁμοίως ποιεῖ, καὶ οὐ μόνον ταῖς αἰσθήσεσιν, ἀλλὰ καὶ τῆι ψυχῆι. καὶ περὶ μὲν ὄψεως καὶ ἀκοῆς οὕτως ἀποδίδωσι, τὰς δὲ ἄλλας αἰσθήσεις σχεδὸν ὁμοίως ποιεῖ τοῖς πλείστοις. (58) περὶ δὲ τοῦ φρονεῖν ἐπὶ τοσοῦτον εἴρηκεν ὅτι γίνεται συμμέτρως ἐχούσης τῆς ψυχῆς κατὰ τὴν κρῆσιν˙ ἐὰν δὲ περίθερμός τις ἢ περίψυχρος γένηται, μεταλλάττειν φησί. δι' ὅ τι καὶ τοὺς παλαιοὺς καλῶς [II 116. 30 App.] τοῦθ' ὑπολαβεῖν ὅτι ἐστὶν ἀλλοφρονεῖν. ὥστε φανερόν, ὅτι τῆι κράσει τοῦ σώματος ποιεῖ τὸ φρονεῖν, ὅπερ ἴσως αὐτῶι καὶ κατὰ λόγον ἐστὶ σῶμα ποιοῦντι τὴν ψυχήν. αἱ μὲν οὖν περὶ αἰσθήσεως καὶ τοῦ φρονεῖν δόξαι σχεδὸν αὖται καὶ τοσαῦται τυγχάνουσιν οὖσαι παρὰ τῶν πρότερον.
(59) περὶ δὲ τῶν αἰσθητῶν, τίς ἡ φύσις καὶ ποῖον ἕκαστόν ἐστιν, οἱ μὲν ἄλλοι
[II 116. 35] παραλείπουσιν. τῶν μὲν γὰρ ὑπὸ τὴν ἁφὴν περὶ βαρέος καὶ κούφου καὶ θερμοῦ καὶ ψυχροῦ λέγουσιν, οἷον ὅτι τὸ μὲν μανὸν καὶ λεπτὸν θερμόν, τὸ δὲ πυκνὸν καὶ παχὺ ψυχρόν, ὥσπερ Ἀναξαγόρας διαιρεῖ τὸν ἀέρα καὶ τὸν αἰθέρα. σχεδὸν δὲ [II 117. 1 App.] καὶ τὸ βαρὺ καὶ τὸ κοῦφον τοῖς αὐτοῖς καὶ ἔτι ταῖς ἄνω καὶ κάτω φοραῖς, καὶ πρὸς τούτοις περί τε φωνῆς ὅτι κίνησις τοῦ ἀέρος, καὶ περὶ ὀσμῆς ὅτι ἀπορροή τις. Ἐμπεδοκλῆς δὲ καὶ περὶ τῶν χρωμάτων, καὶ ὅτι τὸ μὲν λευκὸν τοῦ πυρὸς τὸ δὲ μέλαν τοῦ ὕδατος [31 A 69 a. B 94]. οἱ δ' ἄλλοι τοσοῦτον μόνον, ὅτι τό τε λευκὸν [II 117. 5] καὶ τὸ μέλαν ἀρχαί, τὰ δ' ἄλλα μειγνυμένων γίνεται τούτων. καὶ γὰρ Ἀναξαγόρας ἁπλῶς εἴρηκε περὶ αὐτῶν. (60) Δ. δὲ καὶ Πλάτων ἐπὶ πλεῖστόν εἰσιν ἡμμένοι, καθ' ἕκαστον γὰρ ἀφορίζουσι˙ πλὴν ὁ μὲν οὐκ ἀποστερῶν τῶν αἰσθητῶν τὴν φύσιν, Δ. δὲ πάντα πάθη τῆς αἰσθήσεως ποιῶν. ποτέρως μὲν οὖν ἔχει τἀληθὲς οὐκ ἂν εἴη λόγος. ἐφ' ὅσον δὲ ἑκάτερος ἧπται καὶ πῶς ἀφώρικε πειραθῶμεν [II 117. 10] ἀποδοῦναι, πρότερον εἰπόντες τὴν ὅλην ἔφοδον ἑκατέρου. Δ. μὲν οὖν οὐχ ὁμοίως λέγει περὶ πάντων, ἀλλὰ τὰ μὲν τοῖς μεγέθεσι, τὰ δὲ τοῖς σχήμασιν, ἔνια δὲ τάξει καὶ θέσει διορίζει. Πλάτων δὲ σχεδὸν ἅπαντα πρὸς τὰ πάθη καὶ τὴν αἴσθησιν ἀποδίδωσιν. ὥστε δόξειεν ἂν ἑκάτερος ἐναντίως τῆι ὑποθέσει λέγειν. (61) ὁ μὲν γὰρ πάθη ποιῶν τῆς αἰσθήσεως [II 117. 15 App.] καθ' αὑτὰ διορίζει τὴν φύσιν˙ ὁ δὲ καθ' αὑτὰ ποιῶν ταῖς οὐσίαις πρὸς τὰ πάθη τῆς αἰσθήσεως ἀποδίδωσι.
βαρὺ μὲν οὖν καὶ κοῦφον τῶι μεγέθει διαιρεῖ Δ.˙ εἰ γὰρ διακριθείη καθ' ἓν ἕκαστον, εἰ καὶ κατὰ σχῆμα διαφέροι, σταθμὸν ἂν ἐπὶ μεγέθει τὴν φύσιν ἔχειν (?). οὐ μὴν ἀλλ' ἔν γε τοῖς μεικτοῖς κουφότερον μὲν εἶναι τὸ πλέον ἔχον κενόν, βαρύτερον δὲ τὸ ἔλαττον. ἐν ἐνίοις μὲν οὕτως εἴρηκεν. (62) ἐν ἄλλοις δὲ κοῦφον εἶναί φησιν
[II 117. 20 App.] ἁπλῶς τὸ λεπτόν. παραπλησίως δὲ καὶ περὶ σκληροῦ καὶ μαλακοῦ. σκληρὸν μὲν γὰρ εἶναι τὸ πυκνόν, μαλακὸν δὲ τὸ μανόν, καὶ τὸ μᾶλλον δὲ καὶ ἧττον καὶ μάλιστα κατὰ λόγον. διαφέρειν δέ τι τὴν θέσιν καὶ τὴν ἐναπόληψιν τῶν κενῶν τοῦ σκληροῦ καὶ μαλακοῦ καὶ βαρέος καὶ κούφου. διὸ σκληρότερον μὲν εἶναι σίδηρον, βαρύτερον δὲ μόλυβδον˙ τὸν μὲν γὰρ σίδηρον ἀνωμάλως συγκεῖσθαι καὶ τὸ [II 117. 25 App.] κενὸν ἔχειν πολλαχῆι καὶ κατὰ μεγάλα, πεπυκνῶσθαι δὲ κατὰ ἔνια, ἁπλῶς δὲ πλέον ἔχειν κενόν. τὸν δὲ μόλυβδον ἔλαττον ἔχοντα κενὸν ὁμαλῶς συγκεῖσθαι κατὰ πᾶν ὁμοίως˙ διὸ βαρύτερον μέν, μαλακώτερον δ' εἶναι τοῦ σιδήρου. (63) περὶ μὲν 〈οὖν〉 βαρέος καὶ κούφου καὶ σκληροῦ καὶ μαλακοῦ ἐν τούτοις ἀφορίζει. τῶν δὲ ἄλλων αἰσθητῶν οὐδενὸς εἶναι φύσιν, ἀλλὰ πάντα πάθη τῆς αἰσθήσεως ἀλλοιουμένης, [II 117. 30 App.] ἐξ ἧς γίνεσθαι τὴν φαντασίαν. οὐδὲ γὰρ τοῦ ψυχροῦ καὶ τοῦ θερμοῦ φύσιν ὑπάρχειν, ἀλλὰ τὸ σχῆμα μεταπῖπτον ἐργάζεσθαι καὶ τὴν ἡμετέραν ἀλλοίωσιν˙ ὅ τι γὰρ ἂν ἄθρουν ἦι, τοῦτ' ἐνισχύειν ἑκάστωι, τὸ δ' εἰς μακρὰ διανενεμημένον ἀναίσθητον εἶναι. σημεῖον δ' ὡς οὐκ εἰσὶ φύσει τὸ μὴ ταὐτὰ πᾶσι φαίνεσθαι [II 117. 35 App.] τοῖς ζώιοις, ἀλλ' ὃ ἡμῖν γλυκύ, τοῦτ' ἄλλοις πικρὸν καὶ ἑτέροις ὀξὺ καὶ ἄλλοις δριμὺ τοῖς δὲ στρυφνόν, καὶ τὰ ἄλλα δ' ὡσαύτως. (64) ἔτι δ' αὐτοὺς μεταβάλλειν τῆι κρήσει κατὰ τὰ πάθη καὶ τὰς ἡλικίας˙ ἧι καὶ φανερὸν ὡς ἡ διάθεσις αἰτία τῆς φαντασίας. ἁπλῶς μὲν οὖν περὶ τῶν αἰσθητῶν οὕτω δεῖν ὑπολαμβάνειν. οὐ [II 118. 1 App.] μὴν ἀλλ' ὥσπερ καὶ τὰ ἄλλα καὶ ταῦτα ἀνατίθησι τοῖς σχήμασι˙ πλὴν οὐχ ἁπάντων ἀποδίδωσι τὰς μορφάς, ἀλλὰ μᾶλλον τῶν χυλῶν καὶ τῶν χρωμάτων, καὶ τούτων ἀκριβέστερον διορίζει τὰ περὶ τοὺς χυλοὺς ἀναφέρων τὴν φαντασίαν πρὸς ἄνθρωπον.
[II 118. 5 App.] (65) τὸν μὲν οὖν ὀξὺν εἶναι τῶι σχήματι γωνοειδῆ τε καὶ πολυκαμπῆ καὶ μικρὸν καὶ λεπτόν. διὰ γὰρ τὴν δριμύτητα ταχὺ καὶ πάντηι διαδύεσθαι, τραχὺν δ' ὄντα καὶ γωνοειδῆ συνάγειν καὶ συσπᾶν˙ διὸ καὶ θερμαίνειν τὸ σῶμα κενότητας ἐμποιοῦντα˙ μάλιστα γὰρ θερμαίνεσθαι τὸ πλεῖστον ἔχον κενόν. τὸν δὲ γλυκὺν ἐκ περιφερῶν συγκεῖσθαι σχημάτων οὐκ ἄγαν μικρῶν˙ διὸ καὶ διαχεῖν [II 118. 10 App.] ὅλως τὸ σῶμα καὶ οὐ βιαίως καὶ οὐ ταχὺ πάντα περαίνειν˙ τοὺς 〈δ'〉 ἄλλους ταράττειν, ὅτι διαδύνων πλανᾶι τὰ ἄλλα καὶ ὑγραίνει˙ ὑγραινόμενα δὲ καὶ ἐκ τῆς τάξεως κινούμενα συρρεῖν εἰς τὴν κοιλίαν˙ ταύτην γὰρ εὐπορώτατον εἶναι διὰ τὸ ταύτηι πλεῖστον εἶναι κενόν. (66) τὸν δὲ στρυφνὸν ἐκ μεγάλων σχημάτων καὶ πολυγωνίων καὶ περιφερὲς ἥκιστ' ἐχόντων˙ ταῦτα γὰρ ὅταν εἰς τὰ [II 118. 15 App.] σώματα ἔλθηι, ἐπιτυφλοῦν ἐμπλάττοντα τὰ φλεβία καὶ κωλύειν συρρεῖν˙ διὸ καὶ τὰς κοιλίας ἱστάναι. τὸν δὲ πικρὸν ἐκ μικρῶν καὶ λείων καὶ περιφερῶν τὴν περιφέρειαν εἰληχότα καὶ καμπὰς ἔχουσαν˙ διὸ καὶ γλισχρὸν καὶ κολλώδη. ἁλμυρὸν δὲ τὸν ἐκ μεγάλων καὶ οὐ περιφερῶν, ἀλλ' ἐπ' ἐνίων μὲν σκαληνῶν, 〈ἐπὶ δὲ πλείστωνοὐ σκαληνῶν〉, διὸ οὐδὲ πολυκαμπῶν (βούλεται δὲ σκαληνὰ [II 118. 20 App.] λέγειν ἅπερ περιπάλαξιν ἔχει πρὸς ἄλληλα καὶ συμπλοκήν)˙ μεγάλων μέν, ὅτι ἡ ἁλμυρὶς ἐπιπολάζει˙ μικρὰ γὰρ ὄντα καὶ τυπτόμενα τοῖς περιέχουσι μείγνυσθαι ἂν τῶι παντί˙ οὐ περιφερῶν δ' ὅτι τὸ μὲν ἁλμυρὸν τραχὺ τὸ δὲ περιφερὲς λεῖον˙ οὐ σκαληνῶν δὲ διὰ τὸ μὴ περιπαλάττεσθαι, διὸ ψαφαρὸν εἶναι.
(67) τὸν δὲ δριμὺν μικρὸν καὶ περιφερῆ καὶ γωνιοειδῆ, σκαληνὸν δὲ οὐκ ἔχειν.
[II 118. 25 App.] τὸν μὲν γὰρ δριμὺν πολυγώνιον ποιεῖν τῆι τραχύτητι θερμαίνειν καὶ διαχεῖν διὰ τὸ μικρὸν εἶναι καὶ περιφερῆ καὶ γωνιοειδῆ˙ καὶ γὰρ τὸ γωνιοειδὲς εἶναι τοιοῦτον. ὡσαύτως δὲ καὶ τὰς ἄλλας ἑκάστου δυνάμεις ἀποδίδωσιν ἀνάγων εἰς τὰ σχήματα. ἁπάντων δὲ τῶν σχημάτων οὐδὲν ἀκέραιον εἶναι καὶ ἀμιγὲς τοῖς ἄλλοις, ἀλλ' ἐν ἑκάστωι πολλὰ εἶναι καὶ τὸν αὐτὸν ἔχειν λείου καὶ τραχέος καὶ περιφεροῦς καὶ [II 118. 30 App.] ὀξέος καὶ τῶν λοιπῶν. οὗ δ' ἂν ἐνῆι πλεῖστον, τοῦτο μάλιστα ἐνισχύειν πρός τε τὴν αἴσθησιν καὶ τὴν δύναμιν, ἔτι δὲ εἰς ὁποίαν ἕξιν ἂν εἰσέλθηι˙ διαφέρειν [II 119. 1 App.] γὰρ οὐκ ὀλίγον